sabato 24 novembre 2012

Ci si sta, stringendosi un po'

L'ho scelto perché era il meglio che potesse capitarmi.
L'ho scelto perché mi fa ridere. Ridere anche con la pancia.
L'ho scelto perché mi bacia, ogni mattina, prima di andare al lavoro.
L'ho scelto perché quando arriva a casa, alla sera, è stanchissimo. Ma mi rende partecipe del laser, dell'escavatore e della vasca del limo.
L'ho scelto perché mi scrive tre messaggi al mese. Ma mi chiama dieci volte al giorno.
L'ho scelto perché, per lui, sono indispensabile. Per trovare il sale, la camicia, la maglietta.
L'ho scelto perché mi dice ti amo.

L'ho scelto di nuovo, quando sei arrivata tu. Perché Tu mi hai spiazzata. E Lui, mi ha dato coraggio.
Mi ha stretto la mano, mi ha sgridata, mi ha consolato. Mi ha accompagnato, sempre.

L'ho scelto perché siete già Voi. Anche con la mia pancia in mezzo. Perché quando ti parla, tu ti muovi come un tornado. Perché quando ti canta le canzoni, tu ti muovi al ritmo della musica. Perché quando appoggia la sua mano, tu lo riconosci.
L'ho scelto perché era il meglio per noi. Perché, Anna, sarà il tuo papà.
Con la sua tenerezza e la sua voglia di fare. Con i baci e le carezze. Con il nervoso e le urla.



Ho incontrato in un libro, una volta, un papà. L'ho rivisto poco dopo in un film.
E non credevo fosse possibile essere genitori in quel modo. Ma c'era la sofferenza di mezzo. La necessità di essere padre, in una condizione disperata. Con violenza.
Bisogna avere sangue freddo, leggendo questo libro. Perché può fare male.


Nicolò Ammaniti,
Come dio comanda,
Mondadori,
2006.






Buona lettura, lettori.

sabato 10 novembre 2012

Guardo le cose sputate come sono

"Trent'anni è l'età più fottuta della vita, perché hai già delle vere - responsabilità, ecco, responsabilità che non ti vanno affatto ma che non puoi mica scrollarti di dosso, è il momento in cui devi farti una famiglia e andare avanti con tutto il resto, i bambini eccetera, altrimenti poi è troppo tardi e tu non hai ubbidito alle richieste della specie - la specie umana, ragazzo, ai trenta bisogna arrivarci preparati, essere - bisogna essere centrati - e realisti, lo sai che significa realisti?, significa che non mi bevo le storie di nessuno, che non mi faccio le fantasie di quanto è bello, guardo le cose sputate come sono e decido la mia storia."
Paolo Giordano, Il corpo umano.

Tremendamente tradizionalista. Sono tremendamente uniformata alla media.
Oppure.
Sono realista e con i piedi per terra.
Concedo poco spazio ai sarà e vorrei.
Un traguardo dietro l'altro. Perché era ciò che desideravo. Perché era ciò che volevamo.

Però.
È strano a 25 anni. È insolito avere una fede al dito e una pancione di 28 settimane.
È insolito trascorrere la mia vita come quella di una quarantenne.
Poi leggo una storia. Una lettera di un ragazzo, una lettera sul cancro. 30 anni e tumori.
E guardo le cose sputate come sono. Non sempre c'è tempo. E vedo che non si può rimandare quello che è importante. Lo si deve vivere.
E devo crescere. In sette mesi ho fatto crescere il mirtillino nella pancia. Adesso assomiglia a una grande anguria che balla la break-dance.

Sette mesi mi hanno aiutata a diventare consapevole.
Ho guardato alla mia infanzia. Ai miei genitori, alla mia sorellina, alla mia famiglia chiassosa.
Ho guardato ad una adolescenza piena di brufoli, timidezza e amori immaginati.
Ho guardato a quando ho incontrato Lui. A come sia possibile incontrare l'uomo della propria vita in discoteca, nel modo più sbagliato consigliabile.
Ho guardato alla mia casa. Al mio divano carta da zucchero.

Dove leggo. Perché leggo ancora. E mi sono capitati tanti libri tra le mani. Senza entusiasmo finché ho ritrovato Paolo Giordano.
E i soldati del Gulistan. Ragazzi. Umani deboli. Minacciati dalla dissenteria, da cecchini che non si vedono, dalla loro vita in Italia.
Perché non è semplice decidere di essere padre di una figlia concepita con sesso a pagamento.
Perché non è semplice allontanarsi dalla propria madre, l'unica donna che ti abbia mai toccato.
Perché non è semplice non essere il figlio perfetto per una volta.
Ancora una volta Paolo Giordano, mi ha mosso il cuore.

Buona lettura, lettori.

Paolo Giordano, Il corpo umano, Mondadori Editore, 2012.

sabato 6 ottobre 2012

Femmina, bionda e boccoluta

Sarò mamma di una femmina. 
Di una mora, capricciosa, boccoluta femmina. O di una bionda o di una rossa. 
Comunque sarà una bambina, e sarà Anna.

Mi sentivo nella pancia un maschio, per la verità. Quando ho visto le righette pensavo ai rollerblade, alle bratelle, ai calzoncini e alle moto da cross. 
O almeno mi convincevo che fosse un bambino. 
Giacomo, lo abbiamo chiamato per due mesi. 
Ma non c'è mai stato. 

C'è stata, da sempre, Anna. Anna, dal femore gigante. Anna, che si nasconde davanti alla sonda dell'ecografo.  Anna, dalle piccole orecchie e dalla bocca rotonda. 
Anna. Che si sveglia la sera. Dopo cena. Anna. Che  scalcia, sgomita. Anna, che vuole far capire che c'è. Anna.

Metto le mani sulla pancia. Aspetto e risponde. E sogno.
Sogno la sua prima tutina. La sua prima cuffia, le sue prime mollette.
Sogno i pennarelli, le matite e i gessetti.
Sogno i pupazzetti, i doudou, i carillon e le apine.
Sogno il suo lettino, il fasciatoio e i pannolini.
E sogno Lei. Sulla mia pancia, non più dentro.

sabato 29 settembre 2012

Tracciare segmenti

Segmenti e misure. Cervello, ventricoli, aorta e cuore. Mani, piedi, dita.
Poi quel viso. E quella mano che lo nascondeva.

Tutto nel percentile. Tutto nella normalità. Tutto.

È tutto normale a parte il fatto che c'è. Che si muove nella mia pancia. Che è la mia bambina, mia figlia.
Non è come dirlo, sentirlo. Sentire che fra quattro mesi sarò una mamma. Sarò la mamma di Anna. Io, figlia ribelle, mamma di Lei.

Averla nella pelle, nelle cellule, nel seno, nella schiena. Averla nel mio corpo trasformato. Averla negli occhi di Lorenzo che mi guardano, diversa. Averla nelle sue mani sulla mia pancia. Alla ricerca di quel calcio. Averla nell'ansia di quel pomeriggio, davanti alla porta della ginecologa. Sedermi lì davanti con il cuore a mille, finché ho visto il suo braccio muoversi. 

È bella più di una stella la mia bambina, guardo e riguardo quel viso. Lo studio, colta da un'attacco di mammitudine. Non so cosa significa essere mamma, io sono ancora solo una pancia in movimento.
Ma sento, davanti a quello schermo, un buco nello stomaco, quel riempirsi, quel movimento del cuore che credo sia amore.




Home, Susan Lordi


Willow Tree

mercoledì 26 settembre 2012

Attesa

In questa attesa, annego. In questa attesa, respiro a stento. In questa attesa desidererei dormire e svegliarmi al momento giusto. 

No, non sono portata a vivere l'attesa. Non sono portata a guardare l'orologio e il calendario e vedere quanto manca. Conto i giorni, saltandone qualcuno. Conto i mesi, conto le ore. 

Che poi se mi guardo indietro di strada ne ho già fatta. 
21 settimane, di attesa, di domande, di paure, di gioie, di emozioni. Mancano tante settimane quante ne ho già trascorse. A metà strada. 
È come quando fai le gite nei boschi. Quando ti siedi a mangiare a pranzo. Fiera di quello che hai già fatto, ma pronta a rimetterti in piedi. Per arrivare alla vetta. 

Ecco domani una nuova importante tappa. Una prova da superare, per veùdere se tutti abbiamo fatto i compiti. 
Morfologica, significa vedere se lì dentro è tutto a posto. Significa venti minuti di controlli, di misure, di gambe, di braccia, di testa e di mani. Voglio vederla. Lì, davanti a quel televisore con le mani nelle mani. 

Cresci, piccola mia. Scalcia, piccola mia. Respira, piccola mia. 
Io, sono qui a proteggerti. Con le mani sulla pancia, pronta a sentire ogni tuo movimento. Pronta a bere, far pipì, cantarti una canzone, svegliarmi la notte, accarezzarmi l'ombelico. 
Siamo a metà del viaggio. 
Tu, io e il papà. Ti voglio bene, vi voglio bene, ti vogliamo bene.  



venerdì 21 settembre 2012

Finché morte non ci separi

14 Luglio 2012.

Due anelli al dito, emozioni su emozioni difficili da sciogliere. Difficili da rendere singolarmente. Una matassa di fili di ricordi.

La scala di casa della mamma. I fiocchi. I vicini alla finestra. I fiori arrivati alla mattina.
I parenti.
I capelli e il trucco. Guardarsi allo specchio e vedersi un'altra. Capelli, ferro per i ricci, lacca, illuminante, piegaciglia, fard, mascara, correttore (a fiumi!), ombretti, matita dentro gli occhi.
(ricordate Mulan? Quando doveva presentarsi alla mezzana?)


Mi sono sentita una principessa, dentro una nuvola, dentro quel tappeto fiorito. Bello da fare invidia, bello come non ne ho ancora visti, su nessuna.
E scendere per le scale, perché tutta non ci stavo nell'ascensore. Le mie damigelle, le bambine più belle di tutta Italia, come boccioli di principessa. Applausi in via Turbini, non pensavo che il quartiere si interessasse a me. Eppure.

Dimenticarsi il bouquet. Lasciare a casa le mie peonie bianche. Arrivare mezz'ora in ritardo, la voglia di essere già là, gustarmi il tragitto. Le macchine che vedevano la sposa, e mi salutavano. A meno di un chilometro penso di avere spento il cervello. E acceso il cuore, e i gesti sono venuti di conseguenza. Il mio papà mi ha guardato, prima di scendere. E lì ho rivisto quando mi faceva giocare sul tappeto con gli occhi pieni di sonno. E ho sentito i suoi no e i suoi sì. E ho visto le mattine in macchina, fino a casa della nonna, con un nuovo cd. E ho sentito le storie della sua infanzia, raccontate con un pizzico di licenza poetica.

E ci siamo incamminati. E mi ha sorretto, come sempre fino ad ora. E mi ha portato fino all'altare, e mi ha consegnato a Lui. A lui, bello e raggiante. Le mani con la tremarella. Ci siamo seduti, ci siamo guardati ci siamo presi le mani e non ce le siamo più lasciate.

È stata una festa incredibile. Con un trattore, con i fuochi d'artificio, con la discoteca a cui abbiamo detto addio per sempre. Con Anna dentro alla mia pancia, dentro di noi. Facendoci capire che, noi, siamo già una famiglia. 



sabato 15 settembre 2012

L'aspettiamo

Giugno. Una mattina. Pipì. Due linee. Lorenzo. Gli occhi pieni di sonno. Un bacio ancora con la bocca della notte.

Sì, quello che aspettavamo.
Quello che non pensavamo arrivasse. Non proprio quel mese.
Invece era bello evidente. Con due linee rosse su un test fatto per scrupolo, non si sa mai.

Le mani mi sono tremate per quattro giorni. Gli occhi mi continuavano a rimandare quelle linee. Avevamo un segreto, un sussurro a fior di labbra. Lo conservavamo come un bicchiere di cristallo, con la paura di spezzare tutto.

Per la prima volta mi sono sentita in coppia. Al telefono di nascosto, per dirgli del secondo test positivo, dell'appuntamento con la dottoressa, del sonno che mi sfiancava.

Per la prima volta mi sono sentita solo un corpo. Avevo sonno, un sonno da levarmi la possibilità di pensare. Mal di schiena. Un senso di spossatezza che mi faceva chiudere gli occhi alle nove di sera.

Per la prima volta abbiamo sentito un cuore dentro un cuore. Come un cavallo impazzito. Come un rullio di tamburi. Per la prima volta non ho tirato in dentro la pancia. Anzi la accarezzavo.

Per la prima volta ho guardato io, mamma in potenza, negli occhi la mia, mamma da venticinque anni. E ho pianto, ho riso isterica, mi sono sentira immatura, mi sono sentita adulta.

Per la prima volta ho paura. Ho paura che tutto passi troppo veloce, ho paura che tutto passi troppo lento. L'aspetto, l'aspettiamo con ansia e trepidazione.

sabato 14 aprile 2012

La caverna


Vorrebbero nutrirci di ignoranza. Vorrebbero che il nostro pensiero fosse uniforme. Vorrebbero che tutti pensassimo le stesse cose. Vorrebbero che fossimo assuefatti da una medesima prospettiva.

Tutti uguali, marionette benpensanti. A fare, dire, a muovere le stesse cose. Indottrinati dalla stessa mediatica base di pensiero.
Ci nutrono con la televisione: Uomini e Donne, Amici, C'è posta per te, Ballando con le Stelle, L'isola dei famosi, Grande Fratello.
Si deve giocare di strategia. Si deve vincere. È facile guadagnare, basta essere un po' scaltri. È facile vincere basta avere un po' di fortuna. È facile avere successo, conquistare l'uomo dei tuoi sogni. È tutto semplice, basta mettersi davanti ad una telecamera, sorridere, ammiccare, far vedere la farfallina. Convinti che ognuno può essere quello che vuole. Basta credere nei propri sogni.

Pecore, vacche al pascolo.

Poi tutto viene mosso nella stanza dei bottoni. Tirano i fili della nostra vita. Muovono i nostri gusti, i nostri acquisti, le nostre mode. Danno forma ai sogni che vorremmo realizzare. La moda dei cellulari, dello smartphone, dell'Ipod, Ipad, Iphone. La moda della macchina potente. La moda della vacanza in villaggio. La moda dell'acquisto, del paghi poco alla volta, con tassi da usuraio.

Ho sempre creduto di essere una giovane consumatrice critica. Ho studiato a scuola, all'università. Ho guardato Anno Zero. Ho letto libri, impegnati. Ho visto film, impegnati. Amo la cultura quanto odio l'ignoranza.
Guardo alla televisione programmi spazzatura, con occhio critico. Giudico quello che vedo, non sono assuefatta passivamente.
Compro prodotti a chilometri zero. Cerco di informarmi sulla buona alimentazione, sulla buona salute.

Ma sono una marionetta.
Una concatenzione di eventi. Un articolo su internet di un'avvocatessa che denuncia lo Stato, un pensiero di una camicia verde, un film, una lettura.
E si sono squarciate le catene.

Stamattina mi sento pericolosamente antipolitica. I miei occhi si devono ancora abituare a questa luce accecante. A questa nuova realtà.
Sono stata fin da piccola nel fondo della caverna, in catene. Ero abituata a vivere nelle ombre. A credere che le ombre fossere cose reali.
Ho sciolto i lacci e ora guardo lo splendore abbagliante della luce all'aria aperta. Vedo indistintamente quanto è schifoso tutto quello che vedo. Ora come ora non vedo la possibilità che qualcosa possa cambiare.
Sarebbe più facile, consolante tornare nella caverna. Ma per il momento sono qua a guardare il cielo. Sotto la pioggia.

Solo una lettura. Veloce. Platone, La Repubblica, Libro VII. Il mito della caverna.

Buona lettura lettori,
Giulia

Platone, 
La Repubblica,
Bari,
Laterza,
1990.

martedì 10 aprile 2012

Inventar frottole

Una sala d'attesa. Sola, ad aspettare il mio turno per entrare.
Era l'ora di apertura del reparto. Calca all'ingresso. Un caldo da soffocare.
Mi volto e la vedo. Una donna bionda. Di una certa età. Alta, giunonica. Parla con la sua amica. Incespica con l'italiano ma prosegue a raccontare dettagliatamente le ore precedenti.
Dall'emozione arrossiva nelle gote. Sono nonna. Sono nonna, ripeteva. A chiunque ripeteva la sua meraviglia, il sublime avvenimento.

Si gira, mi vede. Arrossisco. Anche lei è qui per il reparto. Sì, mento spudoratamente. Aspetto la ginecologa. Anche lei è incinta? Si. Che bella emozione, sa anche mia figlia ha avuto un bambino. Ivan. Siamo russi.

Cerco di allontanarmi. Non vorrei continuare, ma mi prende la mano. Vuole proprio parlare con me. Desidera parlare, confrontarsi. Di quante settimane è, signorina? Sette. E' ancora molto presto. Già.

Chissà come sarà contenta sua mamma. Sì, anche mio marito. Poi sa, è una femmina e lui la desiderava così tanto. Si chiamerà Anna.

A dieci anni sognavo di avere un marito, due figlie e un cane.
I miei desideri sono rimasti gli stessi, da quindici anni.
Per ora devo raccontare bugie in un corridoio di ospedale.

In attesa che la natura faccia il suo corso, leggo. E capisco che in fondo decide tutto Lei.


Federica Cozzani,
Lascia che sia,
Milano,
Mursia,
2010.


sabato 24 marzo 2012

Lapidazione

Ho tradito. La fiducia, il rispetto, l’amore. L’idea che qualcuno aveva di me.

Ho tradito. Nel passato, parecchio tempo fa. Ero giovane, inesperta. Curiosa.

Passavano vicino a me ragazzi con le loro storie, i loro gesti nuovi, fuori dall’ordinario. E li conoscevo. Convinta che lo scambio di pelle avesse su di me un tatuaggio indelebile. Era meraviglioso quel turbinio di ormone, desiderio, paura. Erano storie fugaci, di messaggi sul cellulare, di baci sospirati, di strette di mano che facevano venire i brividi.

Vivevo la vita in compartimenti stagni. Attenta a non farmi mischiare le carte.
Ero la compagna, un po’ confidente, un po’ stronza, un po’ affettuosa.
Tutte vite così diverse dalla mia. Era ogni volta come leggere un libro diverso. Essere davanti ad una storia di passioni, famiglie, amici.
Vivevo in un flusso. Alla continua ricerca. Con un desiderio incontrollabile di essere così e di sfuggirne.
Perché poi tornavo. Quando chiudevo il cassetto, tornavo alla quotidianità. Ed era un pugno al costato. Essere la stessa di sempre dopo essere stata un’altra.
E tradivo più quando tornavo che quando ero lontana.
Poi ho pesato tutto e il carico era eccessivo.

Ne ho pagato le conseguenze. Ripugnante. Ma avevo diciott’anni. Era il mio unico alibi.

Anche oggi ne pago le conseguenze.
Nel modo che ho di amare. Metterei la mano sul fuoco sul mio amore. Non ho mai più desiderato cercarlo in altri. Ma ho sempre il pensiero che quello che ho fatto chieda il conto. Torni indietro. Poi lo guardo negli occhi e spero che non desideri mai essere un altro fuori da noi.

Ritorno forte e pesante, stamattina. Perché nonostante fossi sommersa dal carico di impegni, ho letto. Ed ecco qua.
Le regole della nebulosa. Mi sono ritrovata in questa massa indistinta di amore, di rabbia, di perdono e di uomini. Un altro esordio letterario femminile. Unico. Le donne italiane scrivono divinamente.

Buona lettura lettori,
Giulia


Ambra Somaschini,
Le regole della nebulosa,
Feltrinelli,
2012

venerdì 2 marzo 2012

Bibliofollia

Mi spiace costatare che in questo momento sono troppo occupata anche per questo blog. La mia vita in questo momento è troppo ... è quasi meglio non pensare a cosa mi aspetta.

Vivo in una biblio-follia. Aiuto!

Mi farò viva io, presto. Aspettatemi.

Voi, mi raccomando, continuate a leggere però!

Buona lettura lettori,
Giulia


Alberto Castoldi,
Bibliofollia,
Milano,
Bruno Mondadori,
2004.

mercoledì 22 febbraio 2012

Occhi e Mani

Guardo e vedo due occhi. Occhi stanchi, occhi che hanno voglia ancora di avventura, occhi segnati dalla malattia, occhi di uomini e donne.

Guardo e vedo due mani. Mani rugose nonostante le creme idratanti. Mani che hanno fatto, stretto, accarezzato, già vissuto.

Ascolto e sento voci roche, voci squillanti, voci assorte, voci stanche. Voci che hanno da raccontare, che hanno bisogno di parlare e di essere ancora ascoltate.

Sono uomini e donne, giovani un tempo. Anziani ora. E mi perdo nelle loro storie, che amano, a quanto pare, essere ascoltate e viste da me.
C'è una donna che è sempre a zonzo per il mondo, che prende treni anche quando c'è brutto tempo. E che fa preoccupare sua figlia per la sua voglia di visitare le amiche.
C'è un uomo che ha perso un figlio e che mostra la sua immagine a tutti quelli con cui parla. È sordo e con il bastone ma guarda ancora le ragazze e ti fa sentire bella con un compliemento.
C'è una donna che, con la schiena curva, viene ogni settimana a prendere le medicine per sentirsi viva: i libri. Che poi legge tutta la notte perché soffre di insonnia.
C'è una donna che ha vissuto tutta la vita in campagna con la pelle e le mani cotte dal sole. Ha la forza di un uragano, instancabile ottantacinquenne.
C'è un uomo stanco, che ha progettato case per gli altri per una vita. Che quando ti guarda negli occhi si vedono tutti i suoi progetti, due occhi azzurri, affascinanti.

C'è una donna con gli occhi azzurri e due labbra sottili. Avara di complimenti, avara di abbracci e di gentilezze. Una donna autorevole. Una donna che ha sempre tenuto insieme la sua famiglia, nonostante tutto. Una donna che con il passare degli anni ha cominciato a vantare le sue nipoti con i vicini di casa. Una donna che ha le sue particolari abitudini alimentari, che ascolta la televisione a tutto volume, una donna che ha deciso, da qualche anno, di svernare al mare.
Una donna che è una nonna. Una nonna che non è tutta cucina e teleromanzi ma è una nonna che sa dare buoni consigli, amorevoli parole.

La mia è ancora una nonna sprint. Conosco tante nonne. Che necessitano di cure costanti, che si chiudono in una tristezza egoistica in cui il mondo fuori, quello felice, diventa una colpa. In cui ci sono figli che costruiscono la propria vita sulle necessità della propria mamma o del proprio papà. Che vanno a svegliarli, lavarli, metterli a letto. Questo libro è una storia, una testimonianza.

Buona lettura lettori,
Giulia

Sophie Fontanell,
Avrò cura di te,
Milano,
Mondadori,
2011.


sabato 11 febbraio 2012

Di viaggi temporali

Ovvero vivere del passato e del futuro.

Gli amori della mia adolescenza sono stati struggenti. Per lo più vissuti esclusivamente nella mia testa. Non riuscivo ad accontentarmi di qualcosa di facile ma ricercavo sempre la difficoltà. Ero affascinata dalla conquista, dalla ricerca dell'emozione forte, incredibile. Vivevo di ricordi. Di una serata, di una telefonata, di un profumo. E su quel minimo dettaglio potevo andare avanti per mesi e mesi ricordando e struggendomi del tempo passato. Progettavo un futuro. Per conto mio. Senza rendere partecipe l'altra parte in causa, pensavo ad una vita assieme.

Erano amori travolgenti per il mio cuore. Le mie emozioni viaggiavano veloci come turbini, tra le mura della mia casa.

Costruivo un'identità altra alle persone coivolte. Diventavano idoli greci, dipingevo muscoli là dove non c'erano, inventavo meravigliosi pensieri che per la metà erano frutto di mie personali rivisitazioni. Leggevo tra le righe di discorsi chiari e lampanti.

Poi mi scontravo con la realtà. E tutta quella meraviglia di corpi e di personalità svaniva. Lasciandomi sola. Distrutta nel riconoscere che il ricordo era misero, il futuro incerto. Ed è stata dura ritrovarsi con una quotidianità insopportabile. Fatta di troppi difetti e ben pochi pregi. E mi ero convinta che l'amore è bello quando c'era. Quando era solo un ricordo dolce amaro, quando il futuro era fantasticato.

E ho cominciato ad usare gli altri. Vivendo in un perenne presente. Non cedendo mai a vaghi ricordi di tempi passati, credendo solo a quello che potevo verificare con la razionalità. Perchè era stato troppo duro far guarire la scottatura sulla mia pelle lentigginosa.

Poi ho incontrato Lui e ha dovuto subire tutte le pene di un cuore come il mio, duro come pietra. Non era concesso niente, niente di più di quello che era, lì davanti ai miei e ai suoi occhi. Pian piano mi ha levigato con la pazienza di un buon restauratore e i giorni sono diventati mesi e i mesi anni. E sono arrivati i ricordi ora verosimili e i progetti reali. E ora credo che l'amore sia bello quando c'è. Anche se spesso lo dimentichiamo, anche se lo sommergiamo di banali litigi, anche se lo copriamo di insulti, di ripicche e di chiamate minacciose. Perché vivere con un uomo significa guardarlo nei suoi minimi difetti, nei panni sporchi, nelle briciole sotto la sedia, nelle scarpe sempre vicine alla porta. Ma significa anche avere il bacio del buongiorno, avere una carezza quando si ha la febbre, un abbraccio davanti alla televisione.

Pensavo di non essere capace di sopportare la quotidianità. Pensavo facesse per me solo il rimpianto e il rimorso accorato. Ma mi devo ricredere. Assolutamente.

Amanda non ha avuto la mia stessa fortuna. Amanda ripensa a un suo ex a dodici anni di distanza. Lo risente, si riparlano, via mail come i giovani. È un libro sull'approccio all'amore piuttosto che una storia d'amore.

Buona lettura lettori,
Giulia

Chiara Gamberale,
L'amore quando c'era,
Milano,
Mondadori,
2012

venerdì 10 febbraio 2012

Blizzard, lo sconosciuto gelo

Oggi sul balcone di casa mia ho conosciuto Blizzard. Grande onore. Grazie per essere arrivato fino alla mia finestra.
Oggi sul mio balcone sembra di essere in montagna. Risveglio bianco. Risveglio da spartineve, mattutino, molto mattutino. Gelido e umidiccio. Non pensavo che la Pianura Padana stesse per trasformarsi nella Pianura Siberiana!

In montagna l'aria frizzante ti entra nel naso e ti pizzica le narici. In montagna sulla neve gli occhi rimangono sempre aperti per metà perché c'è troppa luce. In montagna i rumori sono sempre ovattati, sembra di vivere molto più leggeri.
La montagna per me è camminare non sciare. Non sono portata per avere un prolungamento artificiale ai piedi. Preferisco rimanere agganciata al suolo. Sui miei piedi, nei miei scarponi da trekking.
Camminare in montagna significa hike, route. Scoutistici.
Non sono mai stata felice, la mattina dell'hike. Mai. Vestirsi di fretta, fare di fretta lo zaino, colazione e poi in mezzo alla neve. Alle nove già a camminare, con la cartina in mano.
Poi senti nelle gambe un'energia nuova. Ti sembra di avere una nuova posizione del mondo. E vedi per la prima volta la Natura senza fretta, e metti un passo davanti all'altro e fai solo quello. Cammini e cammini.
Alla sera le gambe fanno male. I piedi sono pieni di vesciche. Fanno male muscoli che non sapevi di avere.
I pensieri sono leggeri. Per la prima volta dopo molto tempo sembra di essere tornati bambini. Solo la stanchezza fisica ti assale e con un tè caldo tra le mani ci si accontenta di una buona dormita.

Ho bisogno di una bella camminata in montagna per sentire di nuovo quel sano intorpidimento. Ho bisogno di montagna per trovare il modo di dormire senza pensare, senza sogni. Ho bisogno di un po' di tranquillità.

Marina si rifugia in montagna, sulle Dolomiti, con il suo bambino. Per cercare un po' di pace. Camminando sulla neve spera di trovare un nuovo modo di affrontare la sua condizione di essere mamma. Non è facile per lei. Sola e con strani pensieri nella testa. E dalla neve arriva Manfred ad aiutarla. Passo dopo passo.
Tanto freddo in questo libro, ma anche una dose di quelle storie d'amore che fanno piangere.

Buona lettura lettori,
Giulia


Cristina Comencini,
Quando la notte,
Milano,
Feltrinelli,
2009

mercoledì 8 febbraio 2012

Restare

Ci sono solo flash momentanei nella mia testa. Una notte afosa, un caldo che ci saranno stati 40°. La sera si sapeva che non ci sarebbe stato niente da fare. Così non l'avevano mai visto. Non era più quello che tutti avevano conosciuto, la pressione era bassissima, il suo corpo lottava strenuamente per rimanere qui, con noi. Sotto quel lungo corridoio la mamma lo diceva sottovoce alla zia. Io sentivo tutto, però, come sempre.

Ho dormito dalla nonna in quella caldissima notte. Però erano fresche le sue lenzuola, forse era la nonna che cercava di trattenere dentro sè tutto il suo calore.
È suonato il telefono, saranno state le quattro. Lo sapevamo tutti chi era dall'altra parte della cornetta.
Il nonno era andato via.

Poi tutto un turbinio di avvenimenti. Uno dietro l'altro, veloci da vederli solo correre via veloce. C'era il dolore. C'erano le necessità di quattro bambine che nonostante tutto dovevano essere accudite. C'erano i parenti da avvertire. C'era da mettere a posto in casa per ricevere le visite. C'erano gli occhi.
Gli occhi di una famiglia improvvisamente monca.
Gli occhi di quelli che restano. Che devono imparare a stare senza. Che devono condividere lo spazio con un'assenza.

È stata dura per noi ricomporci. È stato difficile ritornare una bambina quando ero diventata grande improvvisamente. È stato difficile ricominciare a farci le fotografie, a festeggiare le feste comandate. Essere felici era diventata una colpa. E quindi tra di noi, bambine, si doveva cercare di fare rumore meno possibile. Stare in silenzio in cameretta. Rispettare i confini e i limiti.
Ma, come un contrappasso, era nata una piccola vita. Che doveva essere festeggiata. E che ci ha portati tutti fuori, "a riveder le stelle". Convinti che in mezzo a quelle avremmo rivisto anche lui.

Amabili resti è un libro per quelli che restano. Sorvegliati da chi se ne è andato. Susie Salmon, assassinata a quattordici anni, guarda dalla Terra di Mezzo la sua famiglia, i suoi amici affannarsi nel dimenticarla o sperare di non farlo mai. Fa piangere questo libro. Fa guardare al dolore in modo diverso. Insolito.

Buona lettura lettori,
Giulia

 
Alice Sebold,
Amabili resti,
E/O,
Roma,
2009.

sabato 4 febbraio 2012

D. Lgs. n. 276/2003

Sono una precaria. O meglio un progetto. Questo significa che ho un compito prefissato che devo portare a termine. Un termine che varia a seconda delle ispirazioni dirigenziali. Un progetto che varia al variare del vento.
Faccio parte della schiera dei giovani senza contratto. Di quelli che lavorano per anni con più "senza" che "con". Senza ferie, senza malattia, senza maternità, senza permessi di qualsivoglia genere. Con uno stipendio, misero ma quello sì.

Quindi non mi dovrei lamentare, non lo sto facendo infatti. Perché c'è chi sta peggio di me. Quelli senza il lavoro, quelli che sono al freddo tutto il giorno, quelli che devono faticare, sudare per avere una paga. Io sono al caldo quando fa freddo, al fresco quando l'aria è soffocante. Io faccio andare il cervello più che le mani nel mio lavoro. Io posso concedermi la pausa caffé. Io ho un contratto (!) a 24 anni. Una rarità.

Però oggi c'è una strana congiunzione astrale che mi porta ad essere negativa, pessimista e arrabbiata. Sarà stata la neve, il ghiaccio, la macchina incastrata, le gomme ovalizzate dal freddo.
E quindi sono arrabbiata. Perché esistono contratti come il mio. Perché questa forma di lavoro rende le persone tristi, insicure. Priva i ragazzi della visione del futuro. Li rende abitanti del presente, un presente di quattro, cinque, sei mesi. Poi chissà. Lavorare così fa perdere fiducia in sè stessi. Fa odiare il proprio collega. Fa perdere passione per quello che si sta facendo. Fa venire al lavoro con la febbre, contagiando tutti. Fa perdere eventi importanti nella vita perché non si possono perdere tante ore. E' essere stanchi perché si hanno orari massacranti. E' avere tanti obblighi e pochi privilegi.

E parlo di ragazzi, parlo di donne. Giovani donne che come me sono ad una fase decisiva della loro vita. E' il momento degli anelli, delle fedi e dei pancioni.
E' possibile anche solo parlarne?

Perché la nostra società è arrivata al punto in cui vedere una ragazza di 24 anni nel reparto maternità è un evento eccezionale? Perché gli abiti da sposa sono ormai tutti da "signora" over trentacinque? Perché desiderare una famiglia è ciò che spaventa di più al giorno d'oggi? Perché la famiglia è la base della società ma viene praticamente inibito dalla realtà quotidiana?

Quando ero una bambina avevo tanti sogni nel cassetto. Essere una mamma, era il primo della lista. Lavorare con i libri in una libreria era il secondo.
Qualcosa si è realizza, qualcos'altro no. Perché a conti fatti, un sogno deve inibire l'altro?

Andrea ha trent'anni. Vita precaria. Fa parte della generazione mille euro. Un lavoro mediocre, una vita mediocre. Perché con mille euro i sogni arrivano fino a lì. Non si tenta qualcosa in più, non ce lo si può permettere. Una vita monotona fino a quando si raggiunge il punto sublime della propria vita nel modo meno convenzionale possibile. Perché per una donna si possono fare pazzie. E abbandonare l'Italia.

Buona lettura lettori,
Giulia


Marcello Pozzato,
Il punto sublime,
Roma,
Fazi,
2010






Continuerò a parlarne in questo Concorso Letterario a cui parteciperò: I make my job, I make my future.

giovedì 2 febbraio 2012

Princess

Sono giorni in cui mi sento una bella principessa. Attorniata da bei vestiti, bei accessori, bel trucco e bel parruco. E' una sensazione strana. Mai mi era capitato prima.
Succede una volta nella vita di prendere un vestito così, allora strascico sia. Come una nuvola, come una cascata di petali.
Sono una che è sempre rimasta in disparte. Non ho mai avuto una bellezza scintillante.

Mi sono sempre sentita brutta. Almeno per tutta la mia adolescenza. Ero letteralmente tempesta di inestetismi adolescenziali: tutta ciccia e brufoli. Ho tentato tutti i possibili rimedi, senza successo. Arrivando a volte anche a peggiorare la situazione (ragazze attenzione ai peeling all'acido glicolico, vi potrebbe trasformare in un mostro!). Mangiavo aggiungendo sempre qualcosa ad ogni pietanza (ho provato anche le bistecche farcite da un triplo strato di sottilette). E i risultati si sono visti. Eccome.

Arricchivo il mio mondo interiore. Convinta che quello che i ragazzi vogliono è una ragazza intelligente. Ho letto affondando il mio naso tra i libri. Tutte le bibliotecarie, le libraie della mia città mi riconoscevano: ecco la Giulia, come legge signora, dovrebbe essere contenta! Dicevano a mia madre. Vivevo le mie storie d'amore sui libri. Amori sempre complicati, travagliati. Che poi interpretavo e vivevo nella mia testa.

Poi si esce dalla "teen generation" ed è una liberazione. Si capisce che lo specchio può essere messo in camera e ci si può guardare senza trattenere il respiro. Si capisce che si hanno difetti che vanno accettati, sui quali si può solo lavorare ma non cancellare. Si capisce che si hanno anche dei pregi, inspiegabilmente. E che la femminilità c'è, negli occhi, nelle labbra di una donna.

Non sono mai stata una principessa. Perché immaginavo che il principe baciasse sempre Cenerentola e io mi sentivo il Brutto Anatroccolo.

Ho desiderato la favola. Ho costruito dentro di me un sogno. In cui ero la principessa con l'abito lungo e lo strascico. E ad aspettarmi al grande ballo c'era un principe con un mazzo di fiori rossi per me.
Forse, anche io posso essere bella. Forse.

Rebecca è oggettivamente brutta. E' nata brutta. Non è amata perché è brutta. Soprattutto da sua madre che l'ha tenuta in grembo nove mesi desiderando una figlia. E' nato un mostro per lei, da tenere sempre a distanza.
Rebecca è cosciente di essere brutta. Lo è basta. Ma cerca amore come tutti. Come tutti i bambini vorrebbe avere carezze dalla madre, che la respinge invece di avvicinarla. Perché Rebecca è una macchia, una colpa. E vive la sua vita in punta di piedi.
Finalista al Premio Strega 2011.

Buona lettura lettori,
Giulia

Mariapia Veladiano,
La vita accanto,
Torino,
Einaudi,
2011

martedì 31 gennaio 2012

A casa

La mia famiglia è ingombrante, rumorosa e chiassosa. 
Parla al telefono, spesso. Parla a tavola a voce alta. Non da scampo. Mai. 
Ma è la cosa più preziosa che ho. 

Non sempre ho desiderato farne parte. A volte, durante i pranzi della domenica, mi sentivo come in gabbia. Perché si parlava di noi, della settimana. Del capo che faceva i suoi interessi, della maestra che non capiva le esigenze. Perché si litigava e a volte la tensione si tagliava con il coltello. Perché si rideva in modo sguaiato di un errore. 
Una famiglia numerosa la mia. Sempre in dieci attorno a un tavolo. Sempre in abbondanza. Pentole di spaghetti alla carbonara, e arrosti con le patate. Sempre in ritardo, a mangiare alle due. 
Mancanza di privacy assoluta. Veniva compiuta un'attenta indagine su quello che era il ragazzo che ti piaceva, sulla amica del momento, sul sabato sera. 
E non sempre si aveva voglia di rispondere perché magari erano cose personali. Non era ammesso il segreto tra di noi.  
Una famiglia di donne la mia. Una nonna, due figlie, quattro nipoti femmine. I problemi erano sempre gli stessi. Problemi da donne. Pettegolezzi, ripicche, litigi, amore.  
Una famiglia che si protegge la mia. Che lotta contro tutti per mantenere la sopravvivenza. Non deve essere attaccata. Altrimenti si prevedono pene severe.

Invidiavo le mie amiche, le loro silenziose cene. I loro ritrovi con pochi membri della famiglia. Mantenevano i loro segreti, loro. La loro mamma (nonna, zia, sorella, cugine) non sapeva che la sera prima avevi baciato il ragazzo dei tuoi sogni. Non sapeva quale era il tuo fidanzato. Non sapeva che avevi preso un brutto voto a scuola. 

Io sì, sempre al centro del ciclone. 
L'ho odiata, come ora la amo. 
Si sente un profumo solo nostro in casa della nonna. Si sente un calore meraviglioso quando si entra in casa della mamma. Si sentono voci amiche in casa della zia. Torno a casa, quando vado lì. 

Ora ho anche io ho una casa. E ho una mini famiglia. Chiassosa, rumorosa, insopportabile come quella da cui provengo. Ma è ciò che difenderei a spada tratta, in qualunque occasione. 

Penso che abbia pensato così anche il protagonista del libro di oggi. Difendere i componenti del proprio branco a costo di soffocare gli altri. L'importanza è data alla sopravvivenza della propria specie a costo di andare contro a tutti i valori morali, etici dei benpensanti. Due ragazzi hanno compiuto un atto ignobile. Cosa possono fare i genitori?

"Tutte le famiglie felici si somigliano, ciascuna famiglia infelice è infelice a modo suo" Tolstoj. 

Buona lettura lettori, 
Giulia

Herman Koch, 
La cena, 
Vicenza, 
Neri Pozza, 
2010.

lunedì 30 gennaio 2012

Aggiustare gli ingranaggi

Si crede di essere indistruttibili. Riuscire a tenere tutto sotto controllo. Presenti a sé stessi sempre.
Poi compaiono delle crepe impercettibili.
Un mal di stomaco sospetto e quel mal di testa che è sempre più forte e sembra non dar tregua. Qualche giorno sembra che la sera non arrivi mai, e i pensieri girano vorticosamente nella testa.
Si riuscirà a fare tutto quello che uno desidera fare? Gli impegni che si prendono non saranno troppi? Si deve mollare la presa?
L'ansia da prestazione. Voler dimostrare di essere perfetti. Senza sbavature. Come una opera d'arte completa. Perfetta.
Non sempre. Quasi mai si riesce.

Ho sempre avuto la convinzione di essere una macchina da guerra. In acciaio inossidabile. Mi sono sempre prefissata degli obbiettivi e li ho raggiunti. Tagliando il traguardo con noncurante modestia. Ma sì, cosa vuoi che sia laurearsi in tempo, avere una casa da mandare avanti, amare un ragazzo e vestirlo, farlo mangiare in modo sano, lavorare in mezzo alla tua passione.

Ora, accuso il colpo. Mi sono fermata. La macchina aveva bisogno di riposare per ricominciare a marciare. Mi sono ritagliata del tempo per me. Per oliare le cinghie. Per riassettare il motore.
Ed ecco il blog. Che mette ordine alla mia testa. Che mette in fila i miei pensieri.
Che mi aiuta a diventare una giovane donna.

La mente mi ha chiesto di rallentare e l'ho fatto. E sto meglio. E scrivo anche se pensavo di non saperlo più fare. Ma è una delle cose che vorrei fare nella vita. E' quello che posso fare prima di tutto per me, poi, spero, anche per quelli che leggono.

Avevo un problema d'ansia. E' difficile accettare questo dato di fatto, è più facile prendersela con un medico che te lo mette davanti agli occhi. E poi parli con un altro dottore e te lo ripete. Io sto bene, dicevo. Ma stiamo scherzando? Non sono pazza!
Poi rifletti. E ti accorgi che ci sono tante cose che non hai ammesso. Prima di tutto a te stessa. E le scrivi.
E stai finalmente bene.

Anche Alice. Non lo poteva accettare. Una diagnosi del genere butta al tappeto il più forte dei combattenti. E lotta con tutte le forze per rimanere fedele alla sua mente fino a quando la malattia è troppo invincibile. Leggere un libro del genere significa buttarsi nella mente di una donna in carriera che scopre di avere una malattia senza cura. Alzheimer.

Buona lettura lettori,
Giulia

Lisa Genova,
Perdersi,
Milano,
Piemme,
2010.

sabato 28 gennaio 2012

Perdere l'innocenza

Ho visto bambini perdere l'innocenza. Ho visto bambini senza regole. Ho visto bambini crescersi da soli, solo con la strada come sostegno. Ho visto sorrisi di bambine, che sapevano già tutto della vita. Ho visto bambini buttati in mezzo a drogati, spacciatori, ladri, cammoristi.

E' difficile guardare negli occhi una bambina e immaginare che la sua vita è già destinata. Tu sarai solo una meteora nel suo destino. Fra dieci anni sarà sposata con un uomo senza lavoro che si affida alla mafia per campare e che dovrà difendere dalla polizia. Avrà dei figli, tanti, possibilmente, che farà crescere sulla strada. Perché è così che si fanno le ossa.

E' difficile guardare negli occhi un bambino e immaginare che la sua vita è già destinata. Tu sarai solo una meteora nel suo destino. Fra dieci anni avrà fatto carriera nella Camorra, sarà un corriere, sarà un apriporte, sarà uno smistatore, sarà una guardia. O finirà drogato, a cercare la dose mendicandola.

Guardare tutto questo è insopportabile. Guardare la gabbia di una vita senza futuro, immaginare che per qualcuno la vita è solo il proprio quartiere è straziante. Un quartiere che prende la vita, che trasforma bambine di dodici anni in troiette spudorate, che fa diventare bambini di nove anni in affannati di sesso.
A questi bambini non serve la playstation per vedere come si uccide, per vedere un morto agonizzante. Li vedono di persona ogni giorno.

Sono i bambini di Scampia ad aver perso l'innocenza. Sono i bambini che hanno visto un ragazzo morire d'overdose. E' uno di quei bambini che ha visto il padre esplodere in mille pezzi dentro la sua macchina. Sono questi bambini che hanno visto drogati in crisi d'astinenza ciondolare come uomini senza anima. E' una di quelle bambine che racconta, con tono di vanto, che sua madre fa la zoccola, e si può permettere il videofonino. E' uno di loro che ci spiega che quella macchia sul muro è il sangue di suo zio che è schizzato. Sono quei bambini che per arrivare a casa loro devono chiedere il permesso a un uomo con una pistola.

E poi ... li vedi al mare e capisci che sono bambini. Perché fanno le gare a chi arriva prima dall'altra parte del golfo. Perché vorrebbero tanto fare un castello di sabbia ma non hanno il secchiello. Perché dopo solo una settimana hanno imparato a sorriderti e a non guardarti con diffidenza. E li prendi in braccio e baci i loro capelli. E si sorprendono che qualcuno abbia riguardo per loro, abbia rispetto di loro e della loro età.

Sono passati quasi sei anni, ma il loro ricordo l'ho nascosto nella parte migliore di me. Quella bambina con gli occhi verdi azzurri (due occhi così, giuro, non li ho mai più visti!) e quel bambino che non accettava le regole e che adesso fa l'attore.

Molti sono i libri che trattano dell'argomento Camorra-Scampia. Uno ad esempio può essere Pronzato Alessandro e Cerullo Davide, Ali Bruciate. I ragazzi di Scampia, Paoline edizioni, 2009.

Ma il libro di oggi tratta dell'infanzia. Parla dell'infanzia traumatizzata che lascia un segno indelebile nel cuore di una bambina che diventa una donna ferita. Lena è una donna adulta, sposata con una figlia. E' una donna silenziosa, che di notte vaga per la città. E' una donna senza affetto verso sé e verso gli altri. E' stata una bambina a cui hanno fatto del male. Una bambina che ha perso l'innocenza.

 Buona lettura lettori,
Giulia.


Barbara Garlaschelli,
Non ti voglio vicino,
Milano,
Frassinelli,
2010

venerdì 27 gennaio 2012

E' un giorno che merita silenzio

Silenzio e riflessione. Si deve continuare a guardare l'orrore in faccia ma non abituarcisi.
Non diventiamo insensibili al male.
Non c'è mai limite al baratro. Si deve rimanere impressionati, scottati da questi eventi. Si deve piangere davanti alla disperazione. Si deve essere in grado di arrabbiarsi davanti a certe decisioni incomprensibili.

Quest'anno la Giornata della Memoria è improntata a combattere il Negazionismo. Fino a che punto si può tollerare la presenza di questo pensiero? Si può permettere che queste idee circolino? No, non si può cancellare la memoria di quel dolore.  

Oggi offro un doppio consiglio. Da leggere e da guardare.

La baracca dei tristi piaceri. Perché si conosce tutto delle leggi razziali, dei rastrellamenti, delle deportazioni, dei viaggi sui vagoni merci, sulla selezioni all'ingresso, sulla fame, sui lavori forzati, sulla mancanza di umanità.
Non c'è limite al baratro. Perché in questa storia la protagonista, Sveva, è costretta a prostituirsi, a offrire il proprio corpo agli abusi, alla violenza. Covando dentro una vergogna che rimarrà sempre indelebile.

Vento di primavera. Il rastrellamento degli ebrei francesi a Parigi. La detenzione nel Velodromo d'Inverno, in condizioni igieniche e sanitarie tragiche. Il trasferimento in un campo di smistamento per i lager tedeschi. Attraverso gli occhi di un'infermiera e di un bambino.

Buona lettura lettori,
Giulia.



Helga Schneider,
La baracca dei tristi piaceri,
Milano,
Salani,
2009.






Rose Bosch,
Vento di Primavera,
Fra/Ger/Ung,
2010.

giovedì 26 gennaio 2012

Di mamma ce n'è una sola

... e oserei dire per fortuna!
E' difficile essere mamma come è difficile essere figlia.
La serie "Una mamma per amica" ha ingannato migliaia di adolescenti, me compresa. L'idea che con la propria madre si possa dire tutto, mangiando cibo spazzatura sul divano e guardando film strappa-lacrime è falsa. Ragazze, non è così. Per prima cosa se si mangia tutte le sere, cordon-bleu, cotolette, patatine si rischia di non passare per le porte prima dei vent'anni. Poi a vostra madre non piace sapere quanti ragazzi avete baciato, con quanti avete fatto l'amore e come è stato. Per quello c'è la migliore amica, se l'avete (altrimenti rimane il diario segreto, quello che dovete nascondere in qualche angolo segreto della scrivania!).

La mia mamma c'è sempre stata. In modo silenzioso, accanto a me. Ha sempre capito tutto della mia vita, anche senza confessioni commoventi. Mi ha consigliato, mi ha guidato verso strade che io stessa non avrei mai preso. Mi ha difeso come una leonessa quando tutti mi prendevano in giro, mi ha sgridato quando dicevo solo bugie, mi ha consolato quando sembrava che l'amore della mia vita non mi volesse più, mi ha preparato succulenti piatti quando avevo deciso di non mangiare più, mi ha cucinato verdure al vapore quando ero diventata tutta ciccia e brufoli.

Piena di buone intenzioni e piena di difetti. Quando non parla per settimane perché è arrabbiata, quando vorrebbe che fossi sempre perfetta e ordinata (che poi, io, nel mio disordine e nella mia sbadataggine io ci sto bene!), quando parla al telefono e ascolta qualsiasi altra cosa al di là della conversazione. Quando fa fatica a dire quello che pensa e quello che prova.

Ma è la mia mamma, unica come nessuna, uguale a mille altre.
Non sempre, però.

Il libro di oggi tratta di maternità, di relazioni famigliari. Di una famiglia: Padre, Madre e Figlia. Una famiglia all'apparenza normale come normali sembrano i rapporti tra la madre e la figlia. Non lo sono. Anzi, tutto si costruisce su un delirio di perversione, di sottomissioni, di rivincite che sanno di vendette. La Madre vuole essere bella e desiderata, osannata dentro e fuori dalla sua casa. La Figlia che vive di dolore, che cresce nella disperazione maturando un rancore profondo che esplode in tutta la sua violenza. Dentro una casa che è uno zoo, dove non si capisce bene chi sia il custode.

E' un incubo, che prosegue anche dopo averlo letto. Forte, deciso, stilisticamente perfetto. E' una lama di coltello che piace o non piace, che si ama o si odia.

Buona lettura lettori,
Giulia

Isabella Santacroce,
Zoo,
Roma,
Fazi,
2006.

martedì 24 gennaio 2012

Se ti chiudessero dentro una stanza

e cominciassero a farti domande private riguardo alla tua vita. Domande personali poste da una voce robotica e che scavano sempre di più nel tuo intimo. "Cosa ci faceva lì signora Pincopallino alle due e mezza, insieme a quell'uomo che non ci risulta essere suo marito?". Domande a cui nessuno vuole rispondere, domande a cui tutti rifiutano di mettere una conclusione. Domande educate, mirate ed estenuanti senza risposte.
Chi le fa queste domande? Le fanno gli Intervistatori, rapiscono la gente per qualche ora, non per soldi, non per atti terroristici ma per scavare nella meschinità umana. Per capire come l'uomo comune arrivi a compiere determinati gesti, per capire i bassi istinti che accomunano il genere umano.

E se mi rapissero? E se facessero su di me questo processo? Quante cose compiute, meschine, grette, di bassezza d'animo verrebbero alla luce?

Apparentemente siamo tutti gente meravigliosa, abitiamo in contesti signorili, alla mattina rifacciamo il letto, puliamo la casa. Poi lavoro, strette di mano, sorrisi con i colleghi, pranzo. Con la famiglia, in ufficio e anche lì chiacchiere, sorrisi, caffè. Pomeriggio, lavoro, guardare l'orologio, è già ora di andare. Macchina, pullman, casa, chiave nella toppa. Cena, telegiornale, film. E si ripassa dal via.

Fatica, impegno, successo.

Non sempre siamo puri d'animo, non sempre il sorriso stampato sulla bocca coincide con un medesimo moto del cuore. Non sempre siamo felici di incontrare il vicino di casa e parlare con lui delle infiltrazioni d'acqua. Non sempre vogliamo essere gentili con l'impiegato della Posta che favorisce i suoi amici allo sportello. Non sempre desideriamo essere rimproverati dal capo. Non sempre si può mascherare l'ignoranza altrui come una propria mancanza.

E il non detto e il non fatto covano in noi. La bella faccia regge, non demorde.
Fino a quando non si sentono scricchiolare le fondamenta, fino al punto di non ritorno. Al punto in cui la faccia non regge più. Al punto in cui il Super Ego non riesce più a trattenere l'Es (Freud docet). Le rimozioni appaiono e si sviluppano in modo inaspettato. E ci si sente individui estranei a quello che ci si aspetta. A quello che la società vorrebbe che fossimo.

E poi arrivano gli Intervistatori, come il Grillo Parlante di Pinocchio. Che mostrano quello che siamo, veramente.

E voi come siete, veramente?

Buona lettura lettori,
Giulia

Fabio Viola,
Gli intervistatori,
Milano,
Ponte alle Grazie,
2010.

lunedì 23 gennaio 2012

Vuoi essere la mia migliore amica?

Ho vissuto buona parte della mia infanzia con questa domanda sulla bocca. Non sono stata una bambina popolare nella mia scuola elementare. Non ho mai capito bene il perché. Sarà stato perché avevo i capelli corti, mentre le mie compagne, biondi, biondissimi capelli lunghi. Sarà stato perché loro avevano l'apparecchio mobile e se lo toglievano spaventando i maschi, mentre io lo avevo fisso e non facevo paura a nessuno. Sarà stato perché le altre avevano lo zaino dell'invicta con tutti i personaggi dei cartoni animati, mentre io avevo la cartella, una meravigliosa cartella fuori moda. 
Però ero anche una bambina dolce, una bambina gentile, che corteggiava segretamente la sua migliore amica. Da noi funzionava così, la più biondissima delle bambine, quella che tutti volevano come amiciSSIMA, valutava e selezionava le pretendenti. Dopo un testa a testa, veniva nominata la migliore amica. 
Io avevo fatto parte sempre delle pretendenti, mai sono stata migliore amica. Tranne una volta a cui arrivai a un soffio dalla nomina, per poi ricevere il bigliettino. No, non voglio diventare la tua "best friend". 

Seguivano i pianti, e una disperazione che rompeva il cuore. La mia mamma cercava di ripetermi che non era importante, che non sarebbe stato un problema trovare una amica. 

Ed effettivamente ora, mi sembra di poter ammettere che non è poi difficile trovare qualcuno con cui parlare, con cui sforgarmi, con cui passare del meraviglioso tempo da perdere. 
Ci sono le amiche da sempre: quelle che hanno condiviso con te tutta la vita, che ti hanno visto diventare quella che sei diventata. Facendoti piangere, facendoti ridere, facendoti inca**are come non mai ma sempre volendoti bene. 
Ci sono le amiche che hai incontrato nella vita : quelle che ti conoscono ora, per come sei ora, che ti devono capire di più, che non sanno tutto di te ma che cercano di saperlo. Che forse riescono a vedere di più in te, anche le cose che dai per scontate.
Ci sono le amiche improvvise, che ti cadono tra le mani, e ti rendi conto che sono un dono. Sono quelle che condividono con te un lavoro, la piscina, un corso. Convivi per forza con loro, condividi quasi la maggior parte della giornata con loro. E ti rendi conto che vai al lavoro per incontrare loro, per aggiornarle di qualcosa, per raccontare il motivo per cui sei tanto triste, per cui sei tanto felice. E lavorare poi, è una conseguenza. 
Grazie amiche di sopportare tutto, di ascoltarmi anche quando per dire una cosa ci metto un'ora, anche quando non rispondo al telefono o ai messaggi, anche quando sono più logorroica, lunatica, antipatica del solito. Siete la mia forza. 

E per concludere tutto questo, come non consigliare un meraviglioso libro sull'amicizia? Sull'amicizia tra maschio e femmina, l'amicizia tra esclusi, emarginati dagli altri che ritrovano nella coppia. Vaclav e Lena sono entrambi figli di immigrati russi, vivono in una condizione di separazione rispetto agli altri bambini,
frequentano classi diverse, corsi diversi. Inevitabile è la loro frequentazione che si tinge di spettacoli di magia
e di puzza di cavolo. Entrambi sanno che possono contare uno sull'altra, segretamente si innamorano. 
Le loro strade, però, si dividono. Non si dimenticano l'uno dell'altra. Anni di silenzio poi al 17° Compleanno...  

Buona lettura lettori, 
Giulia

Haley Tanner,
Cose da salvare in caso di incendio, 
Milano, 
Longanesi, 
2011.



sabato 21 gennaio 2012

Carne dalla mia carne, osso dalle mie ossa

Ovvero il matrimonio e affini.
Da adolescente non sono mai stata la ragazza che si immagina il giorno del matrimonio. Con abito bianco, velo e annessi e connessi. Ho sempre immaginato, però, il giorno in cui avrei tenuto fra le braccia il mio bambino. In me ha sempre prevalso la tenerezza e l'affetto piuttosto che il romanticismo. Non sopporto smancerie in pubblico (per non parlare di quelle coppiette che si baciano in modo prolungato sui treni!), non mi capacito di come facciano alcuni a tenersi la mano per tutto un film al cinema, non riesco a sentire quelle coppie che sono tutte un "tata, amore, tesoro, pasticcino".
Però abbiamo deciso di sposarci. E abbiamo deciso di farlo in chiesa. In contro tendenza a tutti quelli che sono per i rapporti liberi e aperti. Lo facciamo perché è come ringraziare, come ammettere che quello che viviamo è un dono. È una fortuna avere incontrato una persona con cui si sta bene. Ci sono relazioni che appassionano il cuore, ci sono relazioni che appagano la mente, ci sono relazioni che fanno stare bene. Che fanno ridere, che fanno piangere, che fanno arrabbiare, che rendono la quotidianità un momento piacevole. E trovare una persona del genere è qualcosa che va festeggiato. E la festa ci sarà, a luglio.

Convinta della meravigia del vissero finché morte non li separi, frequenti sono le frecciatine di chi ci guarda da fuori: "Tanto tutti si separano" "La crisi del Settimo anno!" "Il divorzio ormai è di moda". La paura che la nostra non sia la favola del Felici e Contenti c'è. E questa paura si alimenta quando si leggono libri come questo.

Una coppia, otto anni di matrimonio, due figli. La favola della Felicità. Quando Agatha scopre una vita parallela del marito e comincia una faida tra lei e quello che doveva amarla e rispettarla. Una guerra fatta di battaglie legali, di sotterfugi, di minaccie. E soprattutto di dolore lucido. Consapevole di aver sbagliato tutto, di aver fatto valutazioni sbagliate e quello che era la tua dolce metà si rivela la metà di uno str***o, anzi uno str***o intero!

E come dice l'autrice, che ha vissuto l'esperienza in primo piano: "Per fare le cose per bene, bisognerebbe cominciare con il divorzio. E poi ci si sposa". Noi ci manteniamo ancora nella tradizione, ci sposiamo poi vedremo ...

Buona lettura lettori,
Giulia


Eliette Abecassis,
Un affaire coniugale,
Milano,
Tropea Edizioni,
2011.

venerdì 20 gennaio 2012

Di lievitazioni e dell'arte dell'aspettare

Non sono portata per l'attesa, lo ammetto. Desidero tutto subito, rimpiangendo subito dopo di non aver aspettato. 
Come i regali di Natale, come si fa a non aprirli prima del tempo corretto? Come una chiamata attesa, come si fa a non controllare mille volte il telefono? Come una data importante, come si fa a non immaginarsi già in quella giornata?
Insomma non sono una portata per le lunghe attese. Sono una che prende le decisioni immediate, o bianco o nero, subito. Non ho mai creduto nella famosa Pausa di Riflessione ciò che vogliamo lo sappiamo già, in fondo al cuore. Tutto è fra le nostre dita, già pronto. Salvo poi pentirsi immediatamente di quello che è stato fatto. Ma fino ad ora la fortuna mi ha strizzato l'occhio, e sono caduta quasi sempre in piedi!


Quindi perché un post sull'attesa? A causa di una pagnotta che sta lievitando nel forno. E scrivere è un modo come un'altro per non continuare a sbirciare se gli agenti lievitanti stanno facendo il loro dovere. 
Che io sia un'ottima cuoca è cosa risaputa. Ma con il pane non mi sono ancora cimentata. (Meglio sorvolare su mio tentativo di pane indiano che Lorenzo ha finto, in modo poco verosimile, di apprezzare!) 
Ingredienti disposti sul tavolo, impasto vigorosamente impastato. E ora ai posteri l'ardua sentenza.


Siccome però siamo in un blog di libri, fondamentale è il consiglio del libro del giorno. Ed è un libro sull'attesa...attesa dell'amore, attesa di un'opera da compiere, attesa di una vendetta. Loro aspettano qualcosa che verrà su un molo, in una locanda. 
E c'è un uomo che aspetta di trovare il modo per dipingere il mare con l'acqua di mare, e c'è una ragazza che aspetta di non avere più paura del mondo, e c'è un uomo che tutte le sere scrive una lettera alla donna della sua vita e aspetta di incontrarla. 


"Ha 38 anni, Bartleboom. Lui pensa che da qualche parte, nel mondo, incontrerà un giorno una donna che, da sempre, è la sua donna. Ogni tanto si rammarica che il destino si ostini a farlo attendere con tanta indelicata tenacia, ma col tempo ha imparato a considerare la cosa con grande serenità. Quasi ogni giorno, ormai da anni, prende la penna in mano e le scrive. Non ha nomi e non ha indirizzi da mettere sulle buste: ma ha una vita da raccontare. E a chi, se non a lei? Lui pensa che quando si incontreranno sarà bello posarle sul grembo una scatola di mogano piena di lettere e dirle
- Ti aspettavo.
Lei aprirà la scatola e lentamente, quando vorrà, leggerà le lettere una ad una e risalendo un chilometrico filo di inchiostro blu si prenderà gli anni -i giorni, gli istanti - che quell’uomo prima ancora di conoscerla, già le aveva regalato. O forse più semplicemente, capovolgerà la scatola e attonita davanti a quella buffa nevicata di lettere sorriderà dicendo a quell’uomo
- Tu sei matto.
E per sempre lo amerà."


E tutte le volte che rileggo questa parte si muove una piccola esplosione dentro di me (Olive Kitteridge remind!).

Buona lettura lettori,
Giulia

Alessandro Baricco,
Oceano Mare,
Milano,
Feltrinelli,
2007

giovedì 19 gennaio 2012

Vorrei essere Olive Kitteridge

Si, vorrei essere lei. Una donna forte, con la risposta pronta. Sarebbe facile essere conformisti in un paese come quello in cui abita, Crosby. Sarebbe facile andare a messa la domenica mattina come Daisy, evitare di mostrare l'apparenza come i signori Lydia, essere conciliante, serena, gentile come una donna matura in pensione.
Eppure a lei non importa di dire quello che pensa, a costo di essere sgarbata, poco educata, poco politically correct. La vita non è stata semplice per lei, ma nemmeno troppo cattiva: un buon marito che comunque l'ha sempre amata, un figlio che l'ha sempre rispettata, un buon lavoro di insegnante. Una buona vita. E la voglia di  piantare piante nel vialetto e voler avere sempre l'ultima parola.

Sono andata a vivere in un paese. Oppure ...sono andata a vivere in campagna ah, ah, ah (Toto Cotugno memories)... Un paese che non sento troppo mio ma che sto imparando a conoscere. Tanti sono gli aspetti meravigliosi, la campana della domenica mattina, il bar della piazza che sforna cornetti sopraffini, il mercato del venerdì, il salutare l'amica del vicino di casa, il conoscere un po' tutti.
Ma il più delle volte vorrei diventare come Olive, e non salutare se non mi va, e dire merda quando serve, e fare un po' la matta, e togliermi dalla faccia questo sorriso ebete.

E leggendo ho capito grazie a Olive (o a Elizabeth Strout) che "la vita si basa su grosse esplosioni e piccole esplosioni. Le grosse esplosioni sono il matrimonio, i figli, gli amici intimi che ci tengono a galla, ma queste cose nascondono correnti invisibili e pericolose. Ecco perchè si ha bisogno anche delle piccole esplosioni: un commesso amichevole da Bradlee's, per esempio, oppure la cameriera del Dunkin'Donuts, che sa come vuoi il caffè. Sono faccende complicate, davvero."

Buona lettura lettori,
Giulia.

Elizabeth Strout,
Olive Kitteridge,
Roma,
Fazi Editore,
2009.