giovedì 14 novembre 2013

Un tremito, è l'amore che mi vibra dentro.

È cominciato tutto con Bellamore di De Gregori. In un cd di ninnananne fatte da quelle due che sono le sue zie del cuore. L'ascoltavo. Dondolando, con lei in braccio. E ho cominciato a piangere.

Non ricordo i motivi. Di quelle prime lacrime. Nemmeno delle seconde. E di quelle delle settimane dopo. Piangevo, con lei in braccio e con lei sul fasciatoio. Piangevo, nel letto e in macchina. Piangevo, in ogni versione.

Mi svegliavo alla mattina. Con lei addosso. E mio marito dall'altra parte del letto. Con loro, lì, io avrei voluto non esserci più. Essere altrove. Dove, non aveva importanza.

Sedevo a tavola. Per il pranzo e la cena. E muovevo il cibo in bocca. Provando disgusto nell'ingoiarlo.

Stavo lontano dalla mia casa grigia. Perché chiusa dentro quelle pareti mi sembrava di scoppiare. Partivamo al pomeriggio. Io e lei, avvolta in quel piumino bianco. In macchina. Verso la città.

Tutti, attorno, mi guardavo con gli occhi della diffidenza. Temevano per me e Anna. Per me, che avevo gli occhi, lo sguardo, la mente sempre altrove. Là, dove vanno le mamme che hanno paura. Per Anna, che mangiava e dormiva. E mi guardava. Guardava una mamma sbagliata.

Una mamma che rabbrividiva se la sentiva piangere. Che voleva che tutto fosse sempre ordinato. Che preferiva che
qualcun altro la cullasse. Per poi sentirsi in colpa per non averlo fatto. E giustificarsi. Con tutti e con se stessa.
Una mamma che non voleva più quella bambina. Che voleva tornare a quando non c'era. A quando si tornava a casa alla sera e si mangiava e si guardava la televisione.

Nove mesi dopo. Mi trovo a pensare a quei momenti. Mi trovo a guardarmi, a riguardare quella che ero.

Ho ancora paura di quella Giulia. Ancora oggi, a volte, mi sento sopraffatta.
È difficile essere una mamma.
È stancante essere una mamma.
È per la vita essere una mamma.


Anna mi ha cambiato. Mi ha fatto uscire dal cuore tanto dolore e tanto amore. Mi ha mosso le viscere. Mi ha squassata. Mi ha riempito e allargato.
Non pensavo di poter amarla veramente. Poi la guardo e mi sembra che il cuore faccia un salto. Un tremito, è l'amore che mi vibra dentro.

Ho imparato ad essere una mamma.
Giulia

sabato 14 settembre 2013

Senza e Con. Te.

Ieri sera. Io e Lorenzo. Come faremmo senza di lei? Cosa faremmo se lei non ci fosse?

Forse compreremmo una moto e andremmo a fare un viaggio on-the-road.
Forse faremmo aperitivi lunghi, bevendo di più e fumando qualche sigaretta.
Forse avrei più spazio in casa, avrei una stanza per gli attrezzi della palestra. O per dipingere.
Forse avrei ordine. E orari più regolari.
Forse avrei notti lunghe piene di sogni.
Forse avrei tempo per piastrare i capelli e passarmi il fard.
Forse avremmo cene a lume di candela. Sere di cinema e pop corn. Notti di abbracci.

Invece lei c'è. Dirompente. Casinista. Urlatrice. Capricciosa. Anna.
E sono notti fatte di lettoni per tre, risvegli, braccia e gambe pelle a pelle.
E sono mattini albeggianti. Con il suo sguardo addosso. E il suo ciuccio. E il suo pupazzo.
E sono pappe. Con le pentole cariche di minestrone. Omogenizzati, contenitori nel freezer.
E sono vacanze al profumo di Romagna, passeggini e pinete. Pappe e secchielli.
E sono malattie. La testa rovente e le spugnature ghiacciate. Il termometro che sale e il mio cuore che rallenta.
E sono sorrisi e lallazioni. Bababa e lalalala e il suo sorriso sdentatato.
E sono i giochi con le apine sopra il letto. Che a lei stare sotto a guardare non piace. Lei ama il dinamismo e le corse sulle spalle.















No, alla fine. La nostra vita non avrebbe poi tanto gusto, senza di te.


martedì 16 luglio 2013

Bamboo_settima

Quella mattina, 18 Giugno.

Sensi.

Udito: sulla macchina, il CD dello Zecchino d’Oro. Mi guardi meravigliata.
Ogni volta che canto per te, tu mi segui con quella bocca stupita e cominci la tua danza. Muovendo il piede a ritmo di musica. Muovendo la testa, a destra e a sinistra. Battendo le manine. E concludi con quel "mamma” che voleva dire “ancora mamma, cantamene un’altra”.
Il nostro rito. Che ci porta a iniziare la nostra giornata. Che ci mette di buon umore. Anche se è un giorno di pioggia o di nebbia. Anche se è l’alba di una notte insonne.
Anche se al lavoro c’è una riunione importante. Anche se è la giornata delle vaccinazioni.
Noi, comunque, ogni mattina cantiamo. E ridiamo e ci guardiamo.

Vista: la strada provinciale. Sempre la stessa. Che ci porta a lavorare. Macchine incolonnate. Le luci degli stop che si accendono e si spengono. In cielo poche nuvole. Ad est il sole comincia a farsi spazio. I campi, ai lati della strada, ricompensano l’uomo della sua fatica. Balloni di paglia. Punti il dito contro il finestrino. Disegni forme immaginarie. E fai brum-brum quando vedi un trattore.

Tatto: le mie mani sono secche. Devo cominciare ad usare la crema idratante. Ho dovuto lavare a mano i pantaloni delle bambine. Ieri sono andate al parco e sono tornate ometti di fango. Devo anche ricominciare a mettere lo smalto. Essere mamma non significa essere sciatta. E’ da quando è nata Sofia che non mi metto i tacchi. Devo comprare un paio di zeppe, colorate, per quest’estate. Magari tornerò a sentirmi un po’ più donna.

Gusto: un caffè. Appena arrivo in ufficio, bevo un caffè. Quelli belli forti, con lo zucchero di canna.  Perché voglio dimagrire. Poi ne uso due bustine. Devo ricordarmi di fare la spesa per stasera, mancano i pomodori, il pane e il latte per la colazione. Oppure passo in gastronomia e prendo un pollo arrosto. Camilla sarebbe al settimo cielo, se poi faccio anche le patatine.

La macchina davanti a me inchioda. Smetto di pensare. Schiaccio il pedale per frenare.

martedì 25 giugno 2013

Bamboo_sesta

I miei genitori comprarono una casetta al mare nell’inverno del 2004. Con i risparmi di una vita trovarono una sistemazione per riscaldare le ossa durante i rigidi inverni dell’ Appennino. Mio padre l’aveva sempre detto che avrebbe passato la sua vecchiaia al sole e, convinta mia madre, firmarono quell’accordo di compravendita. La arredarono con gusto, pochi mobili di recupero che levigarono, sistemarono, pitturarono di bianco. Un bianco candido riflesso sul blu delle piastrelle e del cielo di Sardegna.
Passavano lì le loro estati. Mangiavano pesce comprato al porto che mia madre cucinava con il suo grembiule rosso. Leggevano il giornale in veranda, commentando le ultime notizie dal continente. Compravano il gelato alla sera, passeggiando mano nella mano sul lungomare.
Portavano con loro Camilla, Sofia e Giacomo, il figlio di mio fratello. Era la settimana dei nonni. Quelli che permettavano di andare a letto tardi, di mangiare le caramelle e di stare nell’acqua per ore. Quelli che leggevano le favole sotto il mirto e che cantavano le canzoni a squarciagola sulla strada per il mare.

L’estate scorsa partirono sulla Multipla rossa i nonni con Giacomo e Camilla. Mia mamma aveva organizzato tutto il trasferimento. Valigie, pentole e vestiti. Palette, secchielli e rastrelli. Mio padre aveva messo l’acqua nel radiatore, aveva controllato la pressione delle gomme. Con la promessa di rivederci una settimana dopo, mani e manine ci salutarono dal finestrino.
Li raggiungemmo la domenica. I bambini ci saltarono al collo, ci riempirono di baci e disegni.
La sera mangiammo attorno al tavolo in giardino. Il profumo del pesce si mischiava con il profumo di gelsomino. Facce di bimbi e di nonni abbronzati. Bottiglie di vino e di limoncello. Le candele di citronella che allontanavano le zanzare e l’oscurità. Una delle serate più piacevoli della mia vita.
I bambini si addormentarono sul dondolo con l’odore di salsedine ancora addosso. Noi adulti ci cullavamo al suono del frinire dei grilli e della voce di mio padre.
Lo guardai molte volte quella sera. Osservavo i suoi capelli ormai grigi, la sua nuca arrossata, la fossetta sulla guancia. Le sue mani che andavano a toccare la sua barba. I suoi gesti, la mano attorno al bicchiere, le dita sulla forchetta. Prima di andare a letto, quando ormai non avevo più la forza di tenere gli occhi aperti, gli passai accanto. Mi sorrise e mi toccò la mano.

<Ci vediamo domani, papà>
<Si, ti voglio portare a vedere il faro, in fondo alla spiaggia. Non sai come è bello sentire da lì, la risacca del mare>

La mattina dopo non si svegliò. Non si svegliò mai più.
Da un anno mio padre riposa nel cimitero vicino al mare. Da lì, riesce a sentire ogni giorno il suono delle onde.

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domenica 23 giugno 2013

Bamboo_quinta

Camice azzurro. Camice da infermiera.
<Lucrezia hai una visita. Vai in sala. E’ lì, ad aspettarti>

Tuta grigia, tuta da paziente.
<Ciao mamma>

Vestito scollato. Vestito di chi viene da fuori, dalla libertà.
<Ciao Lucrezia>

<Ti ho portato i cambi. Ho lavato e stirato tutto. Cambiati quella tuta, ha un colore … non vedi che sembri malata con addosso quella roba?>
<Mamma, non è che stia molto bene. Se sono qui significa che un problema ce l’ho.>
<E poi non puoi truccarti? Mettiti un po’ di fard. Hai l’aria di non stare bene per niente>
<Mamma, non sono in vacanza. Sono in un ospedale. E questo colore è perché sono chiusa qui dentro da tre mesi>
<Sai che la zia Tina è ancora caduta. Poverina l’hanno mandata a Cremona a farsi operare al femore. Speriamo riesca a guarire>
<Mamma, ti sono caduti gli occhiali. Aspetta te li raccolgo>
<Grazie, Lucrezia. Ma pensavo, magari, esiste da qualche parte una cura anche per te. Alla fine se riescono a rimettere in piedi una donna di novant’anni, riusciranno a guarire anche te, no?>
<Mamma, io non voglio guarire. Io non merito di guarire>
<Ieri Giovanni è venuto a casa nostra con Camilla. Dieci minuti perché doveva scappare al lavoro. Ha giocato tutto il tempo con la tua bambola. E continuava a chiedermi di te>
<Continua mamma. Parlami di lei>
<Portava quella bella vestina bianca e rossa che avevamo comprato l’anno scorso con i saldi. Aveva i codini ma Giovanni non l’aveva pettinata bene e aveva tutta la riga storta dietro. Faceva finta di allattare la sua bambolotta e diceva “‘desso batta, luttino, fai il luttino”. Ricorda quando allattavi Sofia, oppure ha visto qualcuno.>
<Mamma mi manca. Mi manca la sua voce e mi mancano i suoi occhi. Ma è meglio che stia sola. Senza una mamma come me.>
<Non dire così Lucrezia. Guarirai e uscirai e troverai la tua bambina. E la vita ricomincerà.>

Camice azzurro.
<Signora, scusi. Cominciano a distribuire il pranzo, Lucrezia devi andare>

<Ciao mamma>
<Ciao Lucrezia. E cambiati. Non ti voglio vedere così>

In macchina, Luisa pensa alla figlia. Alla donna che era. Mai avrebbe pensato di andare a trovarla in una clinica di riabilitazione psichiatrica. Mai.

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sabato 22 giugno 2013

Bamboo_quarta

La sera prima di quella mattina io e Giovanni avevamo litigato.

Dovevamo andare a mangiare a casa di amici, fuori in provincia. L’estate era appena iniziata, il caldo aveva preso tutti alla sprovvista. Camilla piangeva forte in macchina, Sofia si divertiva a staccare e riattaccare la clip del ciuccio. La crostata appena sfornata nell’elegante portatorta, il rossetto sulle mie labbra e la camicia bianca di Giovanni. Non ricordo come fu la dinamica ma appena prima di aprire il cancello dei nostri amici la sua camicia era già macchiata di marmellata di lamponi.

Infastidito, per tutta la serata finse indifferenza. Varcata la soglia, con le bambine attaccate alle nostre spalle, cominciò a rimproverare la mia sbadataggine. Si accese un fuoco. Un fuoco di insulti taglienti, di parolacce sottovoce, di sguardi, di nervi tirati.

Dopo dieci anni, litigavamo ancora come adolescenti. Da una parte io con le mie lacrime calde, dall’altra lui con la sua rabbia invadente. Quando lo guardavo in quei momenti non vedevo l’uomo che amavo. No. Era una maschera che si chiudeva in un muto silenzio. Che mi guardava con disprezzo. Che si occupava di minuzie, quando io attraversavo l’inferno.
Un inferno che mi prendeva lo stomaco e che apriva i miei occhi. E li inondava di lacrime. Non sono mai stata capace di fare finta di niente. Non sono mai stata capace di addormentarmi arrabbiata. E Giovanni lo sapeva. Ed era il suo modo di punirmi.

Quella sera continuammo nella nostra danza di luci accese e luci spente, di spazzolini e di dentifricio, di lettini, di pigiami e di abat-jour con quel malumore addosso.
Coricati nel nostro letto, sperando di ricevere refrigerio dalla brezza che tirava dalla montagna, aspettavamo il sonno. E appena prima di chiudere gli occhi, ritrovai la mano di Giovanni sulla mia.
Fu l'ultima volta che toccai quelle dita.

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lunedì 17 giugno 2013

Bamboo_terza

Vent’anni, neanche. Ero al bancone di un bar sulla spiaggia. Ordinavo un aperitivo, un crodino. Tanto da giustificare quelle patatine mangiate. Mi ricordo tutte quelle cannucce e la menta nei bicchieri.

Mi stava aspettando al tavolo, lui, con le domande del rivedersi. “Cosa hai fatto a casa? Chi hai visto? Hai trovato incidenti in autostrada?” Per poi arrivare sempre allo stesso punto: amarci ed odiarci ferocemente. Tutte le settimane, tutti i sabati. Mi veniva a prendere al casello dell’autostrada, facevamo il viaggio fino a casa sua guardandoci negli specchietti retrovisori. Sottocasa, ci baciavamo a perdifiato. E poi, si ricominciava. Ognuno a deludere le aspettative dell’altro. A deludere quello che si era pianificato.

Avevo spinto lo sguardo più in là, oltre gli stecchini a forma di ananas. E l’ho sentito il peso di quegli occhi addosso. 
Che mi stavano guardando, fissando il mio viso e il mio ridicolo vestito. Era la prima volta che lo vedevo. Era la prima volta che vedevo Giovanni.

Lui, al tavolo, non si era accorto di niente. Leggeva la Gazzetta, le prime pagine. Assorto dalle trattative di calciomercato, io ero rimasta al bancone con lo sconosciuto. Veniva da Milano e passava la vacanza in Riviera, con gli amici di una vita. Io ammicavo a quegli occhi color del cielo.
E, così, mi chiese di tornare il giorno dopo. Ridendo, tra una cannuccia e l’altra.

Con il cuore all’impazzata, l’ho fatto. Sola.
Ero un fiume in piena di parole, di gesti. Ero orecchie, bocca, mani quel pomeriggio. Raccontavo a lui quelli che erano i miei progetti. Quello che era la mia vita. E lui ascoltava. E parlava e ammicava.
E appena prima di andare, quando il sole ormai scendeva verso il mare, mi disse “Vieni via con me”. E io, con la bocca tremante e il cuore in bilico, andai.


Quelle rare domeniche di primavera in cui le bambine dormivano nella loro cameretta, mi prendeva la mano e, appena prima di tirarmi su di lui, Giovanni mi diceva “Vieni via con me”.
Come dieci anni prima, con la bocca tremante e il cuore in bilico, mi abbandonavo a lui.

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