La sera prima di quella mattina io e Giovanni avevamo litigato.
Dovevamo andare a mangiare a casa di amici, fuori in provincia. L’estate era appena iniziata, il caldo aveva preso tutti alla sprovvista. Camilla piangeva forte in macchina, Sofia si divertiva a staccare e riattaccare la clip del ciuccio. La crostata appena sfornata nell’elegante portatorta, il rossetto sulle mie labbra e la camicia bianca di Giovanni. Non ricordo come fu la dinamica ma appena prima di aprire il cancello dei nostri amici la sua camicia era già macchiata di marmellata di lamponi.
Infastidito, per tutta la serata finse indifferenza. Varcata la soglia, con le bambine attaccate alle nostre spalle, cominciò a rimproverare la mia sbadataggine. Si accese un fuoco. Un fuoco di insulti taglienti, di parolacce sottovoce, di sguardi, di nervi tirati.
Dopo dieci anni, litigavamo ancora come adolescenti. Da una parte io con le mie lacrime calde, dall’altra lui con la sua rabbia invadente. Quando lo guardavo in quei momenti non vedevo l’uomo che amavo. No. Era una maschera che si chiudeva in un muto silenzio. Che mi guardava con disprezzo. Che si occupava di minuzie, quando io attraversavo l’inferno.
Un inferno che mi prendeva lo stomaco e che apriva i miei occhi. E li inondava di lacrime. Non sono mai stata capace di fare finta di niente. Non sono mai stata capace di addormentarmi arrabbiata. E Giovanni lo sapeva. Ed era il suo modo di punirmi.
Quella sera continuammo nella nostra danza di luci accese e luci spente, di spazzolini e di dentifricio, di lettini, di pigiami e di abat-jour con quel malumore addosso.
Coricati nel nostro letto, sperando di ricevere refrigerio dalla brezza che tirava dalla montagna, aspettavamo il sonno. E appena prima di chiudere gli occhi, ritrovai la mano di Giovanni sulla mia.
Fu l'ultima volta che toccai quelle dita.
Fine, pubblicità.
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