martedì 25 giugno 2013

Bamboo_sesta

I miei genitori comprarono una casetta al mare nell’inverno del 2004. Con i risparmi di una vita trovarono una sistemazione per riscaldare le ossa durante i rigidi inverni dell’ Appennino. Mio padre l’aveva sempre detto che avrebbe passato la sua vecchiaia al sole e, convinta mia madre, firmarono quell’accordo di compravendita. La arredarono con gusto, pochi mobili di recupero che levigarono, sistemarono, pitturarono di bianco. Un bianco candido riflesso sul blu delle piastrelle e del cielo di Sardegna.
Passavano lì le loro estati. Mangiavano pesce comprato al porto che mia madre cucinava con il suo grembiule rosso. Leggevano il giornale in veranda, commentando le ultime notizie dal continente. Compravano il gelato alla sera, passeggiando mano nella mano sul lungomare.
Portavano con loro Camilla, Sofia e Giacomo, il figlio di mio fratello. Era la settimana dei nonni. Quelli che permettavano di andare a letto tardi, di mangiare le caramelle e di stare nell’acqua per ore. Quelli che leggevano le favole sotto il mirto e che cantavano le canzoni a squarciagola sulla strada per il mare.

L’estate scorsa partirono sulla Multipla rossa i nonni con Giacomo e Camilla. Mia mamma aveva organizzato tutto il trasferimento. Valigie, pentole e vestiti. Palette, secchielli e rastrelli. Mio padre aveva messo l’acqua nel radiatore, aveva controllato la pressione delle gomme. Con la promessa di rivederci una settimana dopo, mani e manine ci salutarono dal finestrino.
Li raggiungemmo la domenica. I bambini ci saltarono al collo, ci riempirono di baci e disegni.
La sera mangiammo attorno al tavolo in giardino. Il profumo del pesce si mischiava con il profumo di gelsomino. Facce di bimbi e di nonni abbronzati. Bottiglie di vino e di limoncello. Le candele di citronella che allontanavano le zanzare e l’oscurità. Una delle serate più piacevoli della mia vita.
I bambini si addormentarono sul dondolo con l’odore di salsedine ancora addosso. Noi adulti ci cullavamo al suono del frinire dei grilli e della voce di mio padre.
Lo guardai molte volte quella sera. Osservavo i suoi capelli ormai grigi, la sua nuca arrossata, la fossetta sulla guancia. Le sue mani che andavano a toccare la sua barba. I suoi gesti, la mano attorno al bicchiere, le dita sulla forchetta. Prima di andare a letto, quando ormai non avevo più la forza di tenere gli occhi aperti, gli passai accanto. Mi sorrise e mi toccò la mano.

<Ci vediamo domani, papà>
<Si, ti voglio portare a vedere il faro, in fondo alla spiaggia. Non sai come è bello sentire da lì, la risacca del mare>

La mattina dopo non si svegliò. Non si svegliò mai più.
Da un anno mio padre riposa nel cimitero vicino al mare. Da lì, riesce a sentire ogni giorno il suono delle onde.

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domenica 23 giugno 2013

Bamboo_quinta

Camice azzurro. Camice da infermiera.
<Lucrezia hai una visita. Vai in sala. E’ lì, ad aspettarti>

Tuta grigia, tuta da paziente.
<Ciao mamma>

Vestito scollato. Vestito di chi viene da fuori, dalla libertà.
<Ciao Lucrezia>

<Ti ho portato i cambi. Ho lavato e stirato tutto. Cambiati quella tuta, ha un colore … non vedi che sembri malata con addosso quella roba?>
<Mamma, non è che stia molto bene. Se sono qui significa che un problema ce l’ho.>
<E poi non puoi truccarti? Mettiti un po’ di fard. Hai l’aria di non stare bene per niente>
<Mamma, non sono in vacanza. Sono in un ospedale. E questo colore è perché sono chiusa qui dentro da tre mesi>
<Sai che la zia Tina è ancora caduta. Poverina l’hanno mandata a Cremona a farsi operare al femore. Speriamo riesca a guarire>
<Mamma, ti sono caduti gli occhiali. Aspetta te li raccolgo>
<Grazie, Lucrezia. Ma pensavo, magari, esiste da qualche parte una cura anche per te. Alla fine se riescono a rimettere in piedi una donna di novant’anni, riusciranno a guarire anche te, no?>
<Mamma, io non voglio guarire. Io non merito di guarire>
<Ieri Giovanni è venuto a casa nostra con Camilla. Dieci minuti perché doveva scappare al lavoro. Ha giocato tutto il tempo con la tua bambola. E continuava a chiedermi di te>
<Continua mamma. Parlami di lei>
<Portava quella bella vestina bianca e rossa che avevamo comprato l’anno scorso con i saldi. Aveva i codini ma Giovanni non l’aveva pettinata bene e aveva tutta la riga storta dietro. Faceva finta di allattare la sua bambolotta e diceva “‘desso batta, luttino, fai il luttino”. Ricorda quando allattavi Sofia, oppure ha visto qualcuno.>
<Mamma mi manca. Mi manca la sua voce e mi mancano i suoi occhi. Ma è meglio che stia sola. Senza una mamma come me.>
<Non dire così Lucrezia. Guarirai e uscirai e troverai la tua bambina. E la vita ricomincerà.>

Camice azzurro.
<Signora, scusi. Cominciano a distribuire il pranzo, Lucrezia devi andare>

<Ciao mamma>
<Ciao Lucrezia. E cambiati. Non ti voglio vedere così>

In macchina, Luisa pensa alla figlia. Alla donna che era. Mai avrebbe pensato di andare a trovarla in una clinica di riabilitazione psichiatrica. Mai.

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sabato 22 giugno 2013

Bamboo_quarta

La sera prima di quella mattina io e Giovanni avevamo litigato.

Dovevamo andare a mangiare a casa di amici, fuori in provincia. L’estate era appena iniziata, il caldo aveva preso tutti alla sprovvista. Camilla piangeva forte in macchina, Sofia si divertiva a staccare e riattaccare la clip del ciuccio. La crostata appena sfornata nell’elegante portatorta, il rossetto sulle mie labbra e la camicia bianca di Giovanni. Non ricordo come fu la dinamica ma appena prima di aprire il cancello dei nostri amici la sua camicia era già macchiata di marmellata di lamponi.

Infastidito, per tutta la serata finse indifferenza. Varcata la soglia, con le bambine attaccate alle nostre spalle, cominciò a rimproverare la mia sbadataggine. Si accese un fuoco. Un fuoco di insulti taglienti, di parolacce sottovoce, di sguardi, di nervi tirati.

Dopo dieci anni, litigavamo ancora come adolescenti. Da una parte io con le mie lacrime calde, dall’altra lui con la sua rabbia invadente. Quando lo guardavo in quei momenti non vedevo l’uomo che amavo. No. Era una maschera che si chiudeva in un muto silenzio. Che mi guardava con disprezzo. Che si occupava di minuzie, quando io attraversavo l’inferno.
Un inferno che mi prendeva lo stomaco e che apriva i miei occhi. E li inondava di lacrime. Non sono mai stata capace di fare finta di niente. Non sono mai stata capace di addormentarmi arrabbiata. E Giovanni lo sapeva. Ed era il suo modo di punirmi.

Quella sera continuammo nella nostra danza di luci accese e luci spente, di spazzolini e di dentifricio, di lettini, di pigiami e di abat-jour con quel malumore addosso.
Coricati nel nostro letto, sperando di ricevere refrigerio dalla brezza che tirava dalla montagna, aspettavamo il sonno. E appena prima di chiudere gli occhi, ritrovai la mano di Giovanni sulla mia.
Fu l'ultima volta che toccai quelle dita.

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lunedì 17 giugno 2013

Bamboo_terza

Vent’anni, neanche. Ero al bancone di un bar sulla spiaggia. Ordinavo un aperitivo, un crodino. Tanto da giustificare quelle patatine mangiate. Mi ricordo tutte quelle cannucce e la menta nei bicchieri.

Mi stava aspettando al tavolo, lui, con le domande del rivedersi. “Cosa hai fatto a casa? Chi hai visto? Hai trovato incidenti in autostrada?” Per poi arrivare sempre allo stesso punto: amarci ed odiarci ferocemente. Tutte le settimane, tutti i sabati. Mi veniva a prendere al casello dell’autostrada, facevamo il viaggio fino a casa sua guardandoci negli specchietti retrovisori. Sottocasa, ci baciavamo a perdifiato. E poi, si ricominciava. Ognuno a deludere le aspettative dell’altro. A deludere quello che si era pianificato.

Avevo spinto lo sguardo più in là, oltre gli stecchini a forma di ananas. E l’ho sentito il peso di quegli occhi addosso. 
Che mi stavano guardando, fissando il mio viso e il mio ridicolo vestito. Era la prima volta che lo vedevo. Era la prima volta che vedevo Giovanni.

Lui, al tavolo, non si era accorto di niente. Leggeva la Gazzetta, le prime pagine. Assorto dalle trattative di calciomercato, io ero rimasta al bancone con lo sconosciuto. Veniva da Milano e passava la vacanza in Riviera, con gli amici di una vita. Io ammicavo a quegli occhi color del cielo.
E, così, mi chiese di tornare il giorno dopo. Ridendo, tra una cannuccia e l’altra.

Con il cuore all’impazzata, l’ho fatto. Sola.
Ero un fiume in piena di parole, di gesti. Ero orecchie, bocca, mani quel pomeriggio. Raccontavo a lui quelli che erano i miei progetti. Quello che era la mia vita. E lui ascoltava. E parlava e ammicava.
E appena prima di andare, quando il sole ormai scendeva verso il mare, mi disse “Vieni via con me”. E io, con la bocca tremante e il cuore in bilico, andai.


Quelle rare domeniche di primavera in cui le bambine dormivano nella loro cameretta, mi prendeva la mano e, appena prima di tirarmi su di lui, Giovanni mi diceva “Vieni via con me”.
Come dieci anni prima, con la bocca tremante e il cuore in bilico, mi abbandonavo a lui.

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sabato 15 giugno 2013

Bamboo_seconda

Da quando sono qua, chiusa, qui dentro, ho molto più tempo di prima.
Passo spesso per il ponticello che porta sotto questa veranda. Qui soffia un vento fresco sul finire del pomeriggio. Accompagnato da una fastidiosa compagnia di zanzare che mi devastano i piedi con le loro punture. Tutto sommato però è un buon posto dove stare. Gli altri pazienti passeggiano, giocano a carte, mangiano un dolce, fumano una sigaretta. Io no. Io scrivo, a te.

Da quando sono qua, chiusa, qui dentro, è fiorito il gelsomino.
All’inizio era verde poi sono cominciati a sbocciare i fiorellini bianchi. E con la loro comparsa, quel fantastico profumo. Ci passo davanti e penso già a quanto sarà piacevole ricevere nel naso quell'odore. Perché è quello dell’estate e del mare.
Ne avevano una in quella casa in Sardegna, che ci ospitava per Agosto. Con Giovanni andavamo insieme ai nostri amici. Tutti fidanzati, giovani, con il sapore di sale e di aperitivi addosso. Alla mattina facevamo colazione sotto il patio e lo sentivo, quel profumo, quando il vento soffiava da est.

Da quando sono qua, chiusa, qui dentro, prendo le medicine. E cerco di non fumare.
I dottori mi hanno detto che posso farlo. Se aiuta a scaricare la tensione. L’ultima sigaretta l’ho accesa prima di scoprire di averti nella pancia. E improvvisamente, quel luglio, mi dava fastidio sentire quel sapore di metallo in gola. Per cinque giorni avevo fumato quel pacchetto, poi era troppa la paura di fare una cosa sbagliata o forse la paura di essere scoperta. E avevo smesso, improvvisamente. Come quando avevo iniziato, senza accorgermene.

Da quando sono qua, chiusa, qui dentro non dormo. La notte sono sola, nella mia stanza. Guardo fuori dalla mia stanza e ti immagino. Perché se chiudo gli occhi non riesco a sognarti.

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venerdì 14 giugno 2013

Bamboo_prima




Un'idea che avevo in mente da un po'.

Da prendere un po' così come viene. Sono scene di un racconto che ho chiuso nella mia testa e sotto le mie unghie. E che metterò qui. Puntata dopo puntata.
Da prendere un po' così come viene. Perché non sono una scrittrice e perché le parole mi escono una dietro l'altra senza pensarci. E di solito portano una storia. Come in questo caso.
Da prendere un po' così come viene. Perché a volte non si capisce dove voglio arrivare ma, prima o poi, arrivo.
Si comincia. Buona lettura lettori.


L’ultima cosa che ricordo sono le tue mani appiccicose. Sarà stata colpa della marmellata della colazione. O forse dell’aranciata che avevi rovesciato sul tavolo.
Le tue mani appiccicose sulla mia giacca verde smeraldo. E una chiazza sulla spalla.
Ti avevo staccato da me. Perché dovevo ricominciare a vestirmi da capo e cambiare maglietta, pantaloni e giacca. Tu mi guardavi, seduta sul letto e controllavi tutti i movimenti nella stanza. Ricordo. Non mi staccavi gli occhi di dosso. Controllavi che non uscissi dalla stanza. Avevi paura a rimanere da sola. O forse semplicemente ti annoiavi e volevi vedere movimento.
Mi sono guardata nello specchio riflesso e tu mi sorridevi, nella tua vestina bianca.

Che begli occhi che hai, ho pensato. E come assomigliano a quelli del tuo papà.

Poi via, di fretta. Come sempre. Ricordi indistinti.
Porta, scale, macchina, seggiolino.
“No, dai, non piangere. Un attimo solo e poi partiamo. Guarda che bello questo orsacchiotto. Prova a prendere il ciuccio”. Metto in moto la macchina, la prima. E i soliti dieci chilometri.
Come sempre. Ti guardo l’ultima volta nello specchietto. Ciucciavi il dito di quelle mani appiccicose. Devo lavartele, prima di lasciarti al nido. Ho pensato.

Fine, pubblicità. Alla prossima.