Guardo e vedo due occhi. Occhi stanchi, occhi che hanno voglia ancora di avventura, occhi segnati dalla malattia, occhi di uomini e donne.
Guardo e vedo due mani. Mani rugose nonostante le creme idratanti. Mani che hanno fatto, stretto, accarezzato, già vissuto.
Ascolto e sento voci roche, voci squillanti, voci assorte, voci stanche. Voci che hanno da raccontare, che hanno bisogno di parlare e di essere ancora ascoltate.
Sono uomini e donne, giovani un tempo. Anziani ora. E mi perdo nelle loro storie, che amano, a quanto pare, essere ascoltate e viste da me.
C'è una donna che è sempre a zonzo per il mondo, che prende treni anche quando c'è brutto tempo. E che fa preoccupare sua figlia per la sua voglia di visitare le amiche.
C'è un uomo che ha perso un figlio e che mostra la sua immagine a tutti quelli con cui parla. È sordo e con il bastone ma guarda ancora le ragazze e ti fa sentire bella con un compliemento.
C'è una donna che, con la schiena curva, viene ogni settimana a prendere le medicine per sentirsi viva: i libri. Che poi legge tutta la notte perché soffre di insonnia.
C'è una donna che ha vissuto tutta la vita in campagna con la pelle e le mani cotte dal sole. Ha la forza di un uragano, instancabile ottantacinquenne.
C'è un uomo stanco, che ha progettato case per gli altri per una vita. Che quando ti guarda negli occhi si vedono tutti i suoi progetti, due occhi azzurri, affascinanti.
C'è una donna con gli occhi azzurri e due labbra sottili. Avara di complimenti, avara di abbracci e di gentilezze. Una donna autorevole. Una donna che ha sempre tenuto insieme la sua famiglia, nonostante tutto. Una donna che con il passare degli anni ha cominciato a vantare le sue nipoti con i vicini di casa. Una donna che ha le sue particolari abitudini alimentari, che ascolta la televisione a tutto volume, una donna che ha deciso, da qualche anno, di svernare al mare.
Una donna che è una nonna. Una nonna che non è tutta cucina e teleromanzi ma è una nonna che sa dare buoni consigli, amorevoli parole.
La mia è ancora una nonna sprint. Conosco tante nonne. Che necessitano di cure costanti, che si chiudono in una tristezza egoistica in cui il mondo fuori, quello felice, diventa una colpa. In cui ci sono figli che costruiscono la propria vita sulle necessità della propria mamma o del proprio papà. Che vanno a svegliarli, lavarli, metterli a letto. Questo libro è una storia, una testimonianza.
Buona lettura lettori,
Giulia
Sophie Fontanell,
Avrò cura di te,
Milano,
Mondadori,
2011.
mercoledì 22 febbraio 2012
sabato 11 febbraio 2012
Di viaggi temporali
Ovvero vivere del passato e del futuro.
Gli amori della mia adolescenza sono stati struggenti. Per lo più vissuti esclusivamente nella mia testa. Non riuscivo ad accontentarmi di qualcosa di facile ma ricercavo sempre la difficoltà. Ero affascinata dalla conquista, dalla ricerca dell'emozione forte, incredibile. Vivevo di ricordi. Di una serata, di una telefonata, di un profumo. E su quel minimo dettaglio potevo andare avanti per mesi e mesi ricordando e struggendomi del tempo passato. Progettavo un futuro. Per conto mio. Senza rendere partecipe l'altra parte in causa, pensavo ad una vita assieme.
Erano amori travolgenti per il mio cuore. Le mie emozioni viaggiavano veloci come turbini, tra le mura della mia casa.
Costruivo un'identità altra alle persone coivolte. Diventavano idoli greci, dipingevo muscoli là dove non c'erano, inventavo meravigliosi pensieri che per la metà erano frutto di mie personali rivisitazioni. Leggevo tra le righe di discorsi chiari e lampanti.
Poi mi scontravo con la realtà. E tutta quella meraviglia di corpi e di personalità svaniva. Lasciandomi sola. Distrutta nel riconoscere che il ricordo era misero, il futuro incerto. Ed è stata dura ritrovarsi con una quotidianità insopportabile. Fatta di troppi difetti e ben pochi pregi. E mi ero convinta che l'amore è bello quando c'era. Quando era solo un ricordo dolce amaro, quando il futuro era fantasticato.
E ho cominciato ad usare gli altri. Vivendo in un perenne presente. Non cedendo mai a vaghi ricordi di tempi passati, credendo solo a quello che potevo verificare con la razionalità. Perchè era stato troppo duro far guarire la scottatura sulla mia pelle lentigginosa.
Poi ho incontrato Lui e ha dovuto subire tutte le pene di un cuore come il mio, duro come pietra. Non era concesso niente, niente di più di quello che era, lì davanti ai miei e ai suoi occhi. Pian piano mi ha levigato con la pazienza di un buon restauratore e i giorni sono diventati mesi e i mesi anni. E sono arrivati i ricordi ora verosimili e i progetti reali. E ora credo che l'amore sia bello quando c'è. Anche se spesso lo dimentichiamo, anche se lo sommergiamo di banali litigi, anche se lo copriamo di insulti, di ripicche e di chiamate minacciose. Perché vivere con un uomo significa guardarlo nei suoi minimi difetti, nei panni sporchi, nelle briciole sotto la sedia, nelle scarpe sempre vicine alla porta. Ma significa anche avere il bacio del buongiorno, avere una carezza quando si ha la febbre, un abbraccio davanti alla televisione.
Pensavo di non essere capace di sopportare la quotidianità. Pensavo facesse per me solo il rimpianto e il rimorso accorato. Ma mi devo ricredere. Assolutamente.
Amanda non ha avuto la mia stessa fortuna. Amanda ripensa a un suo ex a dodici anni di distanza. Lo risente, si riparlano, via mail come i giovani. È un libro sull'approccio all'amore piuttosto che una storia d'amore.
Buona lettura lettori,
Giulia
Chiara Gamberale,
L'amore quando c'era,
Milano,
Mondadori,
2012
Gli amori della mia adolescenza sono stati struggenti. Per lo più vissuti esclusivamente nella mia testa. Non riuscivo ad accontentarmi di qualcosa di facile ma ricercavo sempre la difficoltà. Ero affascinata dalla conquista, dalla ricerca dell'emozione forte, incredibile. Vivevo di ricordi. Di una serata, di una telefonata, di un profumo. E su quel minimo dettaglio potevo andare avanti per mesi e mesi ricordando e struggendomi del tempo passato. Progettavo un futuro. Per conto mio. Senza rendere partecipe l'altra parte in causa, pensavo ad una vita assieme.
Erano amori travolgenti per il mio cuore. Le mie emozioni viaggiavano veloci come turbini, tra le mura della mia casa.
Costruivo un'identità altra alle persone coivolte. Diventavano idoli greci, dipingevo muscoli là dove non c'erano, inventavo meravigliosi pensieri che per la metà erano frutto di mie personali rivisitazioni. Leggevo tra le righe di discorsi chiari e lampanti.
Poi mi scontravo con la realtà. E tutta quella meraviglia di corpi e di personalità svaniva. Lasciandomi sola. Distrutta nel riconoscere che il ricordo era misero, il futuro incerto. Ed è stata dura ritrovarsi con una quotidianità insopportabile. Fatta di troppi difetti e ben pochi pregi. E mi ero convinta che l'amore è bello quando c'era. Quando era solo un ricordo dolce amaro, quando il futuro era fantasticato.
E ho cominciato ad usare gli altri. Vivendo in un perenne presente. Non cedendo mai a vaghi ricordi di tempi passati, credendo solo a quello che potevo verificare con la razionalità. Perchè era stato troppo duro far guarire la scottatura sulla mia pelle lentigginosa.
Poi ho incontrato Lui e ha dovuto subire tutte le pene di un cuore come il mio, duro come pietra. Non era concesso niente, niente di più di quello che era, lì davanti ai miei e ai suoi occhi. Pian piano mi ha levigato con la pazienza di un buon restauratore e i giorni sono diventati mesi e i mesi anni. E sono arrivati i ricordi ora verosimili e i progetti reali. E ora credo che l'amore sia bello quando c'è. Anche se spesso lo dimentichiamo, anche se lo sommergiamo di banali litigi, anche se lo copriamo di insulti, di ripicche e di chiamate minacciose. Perché vivere con un uomo significa guardarlo nei suoi minimi difetti, nei panni sporchi, nelle briciole sotto la sedia, nelle scarpe sempre vicine alla porta. Ma significa anche avere il bacio del buongiorno, avere una carezza quando si ha la febbre, un abbraccio davanti alla televisione.
Pensavo di non essere capace di sopportare la quotidianità. Pensavo facesse per me solo il rimpianto e il rimorso accorato. Ma mi devo ricredere. Assolutamente.
Amanda non ha avuto la mia stessa fortuna. Amanda ripensa a un suo ex a dodici anni di distanza. Lo risente, si riparlano, via mail come i giovani. È un libro sull'approccio all'amore piuttosto che una storia d'amore.
Buona lettura lettori,
Giulia
Chiara Gamberale,
L'amore quando c'era,
Milano,
Mondadori,
2012
venerdì 10 febbraio 2012
Blizzard, lo sconosciuto gelo
Oggi sul balcone di casa mia ho conosciuto Blizzard. Grande onore. Grazie per essere arrivato fino alla mia finestra.
Oggi sul mio balcone sembra di essere in montagna. Risveglio bianco. Risveglio da spartineve, mattutino, molto mattutino. Gelido e umidiccio. Non pensavo che la Pianura Padana stesse per trasformarsi nella Pianura Siberiana!
In montagna l'aria frizzante ti entra nel naso e ti pizzica le narici. In montagna sulla neve gli occhi rimangono sempre aperti per metà perché c'è troppa luce. In montagna i rumori sono sempre ovattati, sembra di vivere molto più leggeri.
La montagna per me è camminare non sciare. Non sono portata per avere un prolungamento artificiale ai piedi. Preferisco rimanere agganciata al suolo. Sui miei piedi, nei miei scarponi da trekking.
Camminare in montagna significa hike, route. Scoutistici.
Non sono mai stata felice, la mattina dell'hike. Mai. Vestirsi di fretta, fare di fretta lo zaino, colazione e poi in mezzo alla neve. Alle nove già a camminare, con la cartina in mano.
Poi senti nelle gambe un'energia nuova. Ti sembra di avere una nuova posizione del mondo. E vedi per la prima volta la Natura senza fretta, e metti un passo davanti all'altro e fai solo quello. Cammini e cammini.
Alla sera le gambe fanno male. I piedi sono pieni di vesciche. Fanno male muscoli che non sapevi di avere.
I pensieri sono leggeri. Per la prima volta dopo molto tempo sembra di essere tornati bambini. Solo la stanchezza fisica ti assale e con un tè caldo tra le mani ci si accontenta di una buona dormita.
Ho bisogno di una bella camminata in montagna per sentire di nuovo quel sano intorpidimento. Ho bisogno di montagna per trovare il modo di dormire senza pensare, senza sogni. Ho bisogno di un po' di tranquillità.
Marina si rifugia in montagna, sulle Dolomiti, con il suo bambino. Per cercare un po' di pace. Camminando sulla neve spera di trovare un nuovo modo di affrontare la sua condizione di essere mamma. Non è facile per lei. Sola e con strani pensieri nella testa. E dalla neve arriva Manfred ad aiutarla. Passo dopo passo.
Tanto freddo in questo libro, ma anche una dose di quelle storie d'amore che fanno piangere.
Buona lettura lettori,
Giulia
Cristina Comencini,
Quando la notte,
Milano,
Feltrinelli,
2009
Oggi sul mio balcone sembra di essere in montagna. Risveglio bianco. Risveglio da spartineve, mattutino, molto mattutino. Gelido e umidiccio. Non pensavo che la Pianura Padana stesse per trasformarsi nella Pianura Siberiana!
In montagna l'aria frizzante ti entra nel naso e ti pizzica le narici. In montagna sulla neve gli occhi rimangono sempre aperti per metà perché c'è troppa luce. In montagna i rumori sono sempre ovattati, sembra di vivere molto più leggeri.
La montagna per me è camminare non sciare. Non sono portata per avere un prolungamento artificiale ai piedi. Preferisco rimanere agganciata al suolo. Sui miei piedi, nei miei scarponi da trekking.
Camminare in montagna significa hike, route. Scoutistici.
Non sono mai stata felice, la mattina dell'hike. Mai. Vestirsi di fretta, fare di fretta lo zaino, colazione e poi in mezzo alla neve. Alle nove già a camminare, con la cartina in mano.
Poi senti nelle gambe un'energia nuova. Ti sembra di avere una nuova posizione del mondo. E vedi per la prima volta la Natura senza fretta, e metti un passo davanti all'altro e fai solo quello. Cammini e cammini.
Alla sera le gambe fanno male. I piedi sono pieni di vesciche. Fanno male muscoli che non sapevi di avere.
I pensieri sono leggeri. Per la prima volta dopo molto tempo sembra di essere tornati bambini. Solo la stanchezza fisica ti assale e con un tè caldo tra le mani ci si accontenta di una buona dormita.
Ho bisogno di una bella camminata in montagna per sentire di nuovo quel sano intorpidimento. Ho bisogno di montagna per trovare il modo di dormire senza pensare, senza sogni. Ho bisogno di un po' di tranquillità.
Marina si rifugia in montagna, sulle Dolomiti, con il suo bambino. Per cercare un po' di pace. Camminando sulla neve spera di trovare un nuovo modo di affrontare la sua condizione di essere mamma. Non è facile per lei. Sola e con strani pensieri nella testa. E dalla neve arriva Manfred ad aiutarla. Passo dopo passo.
Tanto freddo in questo libro, ma anche una dose di quelle storie d'amore che fanno piangere.
Buona lettura lettori,
Giulia
Cristina Comencini,
Quando la notte,
Milano,
Feltrinelli,
2009
mercoledì 8 febbraio 2012
Restare
Ci sono solo flash momentanei nella mia testa. Una notte afosa, un caldo che ci saranno stati 40°. La sera si sapeva che non ci sarebbe stato niente da fare. Così non l'avevano mai visto. Non era più quello che tutti avevano conosciuto, la pressione era bassissima, il suo corpo lottava strenuamente per rimanere qui, con noi. Sotto quel lungo corridoio la mamma lo diceva sottovoce alla zia. Io sentivo tutto, però, come sempre.
Ho dormito dalla nonna in quella caldissima notte. Però erano fresche le sue lenzuola, forse era la nonna che cercava di trattenere dentro sè tutto il suo calore.
È suonato il telefono, saranno state le quattro. Lo sapevamo tutti chi era dall'altra parte della cornetta.
Il nonno era andato via.
Poi tutto un turbinio di avvenimenti. Uno dietro l'altro, veloci da vederli solo correre via veloce. C'era il dolore. C'erano le necessità di quattro bambine che nonostante tutto dovevano essere accudite. C'erano i parenti da avvertire. C'era da mettere a posto in casa per ricevere le visite. C'erano gli occhi.
Gli occhi di una famiglia improvvisamente monca.
Gli occhi di quelli che restano. Che devono imparare a stare senza. Che devono condividere lo spazio con un'assenza.
È stata dura per noi ricomporci. È stato difficile ritornare una bambina quando ero diventata grande improvvisamente. È stato difficile ricominciare a farci le fotografie, a festeggiare le feste comandate. Essere felici era diventata una colpa. E quindi tra di noi, bambine, si doveva cercare di fare rumore meno possibile. Stare in silenzio in cameretta. Rispettare i confini e i limiti.
Ma, come un contrappasso, era nata una piccola vita. Che doveva essere festeggiata. E che ci ha portati tutti fuori, "a riveder le stelle". Convinti che in mezzo a quelle avremmo rivisto anche lui.
Amabili resti è un libro per quelli che restano. Sorvegliati da chi se ne è andato. Susie Salmon, assassinata a quattordici anni, guarda dalla Terra di Mezzo la sua famiglia, i suoi amici affannarsi nel dimenticarla o sperare di non farlo mai. Fa piangere questo libro. Fa guardare al dolore in modo diverso. Insolito.
Buona lettura lettori,
Giulia
Alice Sebold,
Amabili resti,
E/O,
Roma,
2009.
Ho dormito dalla nonna in quella caldissima notte. Però erano fresche le sue lenzuola, forse era la nonna che cercava di trattenere dentro sè tutto il suo calore.
È suonato il telefono, saranno state le quattro. Lo sapevamo tutti chi era dall'altra parte della cornetta.
Il nonno era andato via.
Poi tutto un turbinio di avvenimenti. Uno dietro l'altro, veloci da vederli solo correre via veloce. C'era il dolore. C'erano le necessità di quattro bambine che nonostante tutto dovevano essere accudite. C'erano i parenti da avvertire. C'era da mettere a posto in casa per ricevere le visite. C'erano gli occhi.
Gli occhi di una famiglia improvvisamente monca.
Gli occhi di quelli che restano. Che devono imparare a stare senza. Che devono condividere lo spazio con un'assenza.
È stata dura per noi ricomporci. È stato difficile ritornare una bambina quando ero diventata grande improvvisamente. È stato difficile ricominciare a farci le fotografie, a festeggiare le feste comandate. Essere felici era diventata una colpa. E quindi tra di noi, bambine, si doveva cercare di fare rumore meno possibile. Stare in silenzio in cameretta. Rispettare i confini e i limiti.
Ma, come un contrappasso, era nata una piccola vita. Che doveva essere festeggiata. E che ci ha portati tutti fuori, "a riveder le stelle". Convinti che in mezzo a quelle avremmo rivisto anche lui.
Amabili resti è un libro per quelli che restano. Sorvegliati da chi se ne è andato. Susie Salmon, assassinata a quattordici anni, guarda dalla Terra di Mezzo la sua famiglia, i suoi amici affannarsi nel dimenticarla o sperare di non farlo mai. Fa piangere questo libro. Fa guardare al dolore in modo diverso. Insolito.
Buona lettura lettori,
Giulia
Alice Sebold,
Amabili resti,
E/O,
Roma,
2009.
sabato 4 febbraio 2012
D. Lgs. n. 276/2003
Sono una precaria. O meglio un progetto. Questo significa che ho un compito prefissato che devo portare a termine. Un termine che varia a seconda delle ispirazioni dirigenziali. Un progetto che varia al variare del vento.
Faccio parte della schiera dei giovani senza contratto. Di quelli che lavorano per anni con più "senza" che "con". Senza ferie, senza malattia, senza maternità, senza permessi di qualsivoglia genere. Con uno stipendio, misero ma quello sì.
Quindi non mi dovrei lamentare, non lo sto facendo infatti. Perché c'è chi sta peggio di me. Quelli senza il lavoro, quelli che sono al freddo tutto il giorno, quelli che devono faticare, sudare per avere una paga. Io sono al caldo quando fa freddo, al fresco quando l'aria è soffocante. Io faccio andare il cervello più che le mani nel mio lavoro. Io posso concedermi la pausa caffé. Io ho un contratto (!) a 24 anni. Una rarità.
Però oggi c'è una strana congiunzione astrale che mi porta ad essere negativa, pessimista e arrabbiata. Sarà stata la neve, il ghiaccio, la macchina incastrata, le gomme ovalizzate dal freddo.
E quindi sono arrabbiata. Perché esistono contratti come il mio. Perché questa forma di lavoro rende le persone tristi, insicure. Priva i ragazzi della visione del futuro. Li rende abitanti del presente, un presente di quattro, cinque, sei mesi. Poi chissà. Lavorare così fa perdere fiducia in sè stessi. Fa odiare il proprio collega. Fa perdere passione per quello che si sta facendo. Fa venire al lavoro con la febbre, contagiando tutti. Fa perdere eventi importanti nella vita perché non si possono perdere tante ore. E' essere stanchi perché si hanno orari massacranti. E' avere tanti obblighi e pochi privilegi.
E parlo di ragazzi, parlo di donne. Giovani donne che come me sono ad una fase decisiva della loro vita. E' il momento degli anelli, delle fedi e dei pancioni.
E' possibile anche solo parlarne?
Perché la nostra società è arrivata al punto in cui vedere una ragazza di 24 anni nel reparto maternità è un evento eccezionale? Perché gli abiti da sposa sono ormai tutti da "signora" over trentacinque? Perché desiderare una famiglia è ciò che spaventa di più al giorno d'oggi? Perché la famiglia è la base della società ma viene praticamente inibito dalla realtà quotidiana?
Quando ero una bambina avevo tanti sogni nel cassetto. Essere una mamma, era il primo della lista. Lavorare con i libri in una libreria era il secondo.
Qualcosa si è realizza, qualcos'altro no. Perché a conti fatti, un sogno deve inibire l'altro?
Andrea ha trent'anni. Vita precaria. Fa parte della generazione mille euro. Un lavoro mediocre, una vita mediocre. Perché con mille euro i sogni arrivano fino a lì. Non si tenta qualcosa in più, non ce lo si può permettere. Una vita monotona fino a quando si raggiunge il punto sublime della propria vita nel modo meno convenzionale possibile. Perché per una donna si possono fare pazzie. E abbandonare l'Italia.
Buona lettura lettori,
Giulia
Faccio parte della schiera dei giovani senza contratto. Di quelli che lavorano per anni con più "senza" che "con". Senza ferie, senza malattia, senza maternità, senza permessi di qualsivoglia genere. Con uno stipendio, misero ma quello sì.
Quindi non mi dovrei lamentare, non lo sto facendo infatti. Perché c'è chi sta peggio di me. Quelli senza il lavoro, quelli che sono al freddo tutto il giorno, quelli che devono faticare, sudare per avere una paga. Io sono al caldo quando fa freddo, al fresco quando l'aria è soffocante. Io faccio andare il cervello più che le mani nel mio lavoro. Io posso concedermi la pausa caffé. Io ho un contratto (!) a 24 anni. Una rarità.
Però oggi c'è una strana congiunzione astrale che mi porta ad essere negativa, pessimista e arrabbiata. Sarà stata la neve, il ghiaccio, la macchina incastrata, le gomme ovalizzate dal freddo.
E quindi sono arrabbiata. Perché esistono contratti come il mio. Perché questa forma di lavoro rende le persone tristi, insicure. Priva i ragazzi della visione del futuro. Li rende abitanti del presente, un presente di quattro, cinque, sei mesi. Poi chissà. Lavorare così fa perdere fiducia in sè stessi. Fa odiare il proprio collega. Fa perdere passione per quello che si sta facendo. Fa venire al lavoro con la febbre, contagiando tutti. Fa perdere eventi importanti nella vita perché non si possono perdere tante ore. E' essere stanchi perché si hanno orari massacranti. E' avere tanti obblighi e pochi privilegi.
E parlo di ragazzi, parlo di donne. Giovani donne che come me sono ad una fase decisiva della loro vita. E' il momento degli anelli, delle fedi e dei pancioni.
E' possibile anche solo parlarne?
Perché la nostra società è arrivata al punto in cui vedere una ragazza di 24 anni nel reparto maternità è un evento eccezionale? Perché gli abiti da sposa sono ormai tutti da "signora" over trentacinque? Perché desiderare una famiglia è ciò che spaventa di più al giorno d'oggi? Perché la famiglia è la base della società ma viene praticamente inibito dalla realtà quotidiana?
Quando ero una bambina avevo tanti sogni nel cassetto. Essere una mamma, era il primo della lista. Lavorare con i libri in una libreria era il secondo.
Qualcosa si è realizza, qualcos'altro no. Perché a conti fatti, un sogno deve inibire l'altro?
Andrea ha trent'anni. Vita precaria. Fa parte della generazione mille euro. Un lavoro mediocre, una vita mediocre. Perché con mille euro i sogni arrivano fino a lì. Non si tenta qualcosa in più, non ce lo si può permettere. Una vita monotona fino a quando si raggiunge il punto sublime della propria vita nel modo meno convenzionale possibile. Perché per una donna si possono fare pazzie. E abbandonare l'Italia.
Buona lettura lettori,
Giulia
Il punto sublime,
Roma,
Fazi,
2010
Continuerò a parlarne in questo Concorso Letterario a cui parteciperò: I make my job, I make my future.
giovedì 2 febbraio 2012
Princess
Sono giorni in cui mi sento una bella principessa. Attorniata da bei vestiti, bei accessori, bel trucco e bel parruco. E' una sensazione strana. Mai mi era capitato prima.
Succede una volta nella vita di prendere un vestito così, allora strascico sia. Come una nuvola, come una cascata di petali.
Sono una che è sempre rimasta in disparte. Non ho mai avuto una bellezza scintillante.
Mi sono sempre sentita brutta. Almeno per tutta la mia adolescenza. Ero letteralmente tempesta di inestetismi adolescenziali: tutta ciccia e brufoli. Ho tentato tutti i possibili rimedi, senza successo. Arrivando a volte anche a peggiorare la situazione (ragazze attenzione ai peeling all'acido glicolico, vi potrebbe trasformare in un mostro!). Mangiavo aggiungendo sempre qualcosa ad ogni pietanza (ho provato anche le bistecche farcite da un triplo strato di sottilette). E i risultati si sono visti. Eccome.
Arricchivo il mio mondo interiore. Convinta che quello che i ragazzi vogliono è una ragazza intelligente. Ho letto affondando il mio naso tra i libri. Tutte le bibliotecarie, le libraie della mia città mi riconoscevano: ecco la Giulia, come legge signora, dovrebbe essere contenta! Dicevano a mia madre. Vivevo le mie storie d'amore sui libri. Amori sempre complicati, travagliati. Che poi interpretavo e vivevo nella mia testa.
Poi si esce dalla "teen generation" ed è una liberazione. Si capisce che lo specchio può essere messo in camera e ci si può guardare senza trattenere il respiro. Si capisce che si hanno difetti che vanno accettati, sui quali si può solo lavorare ma non cancellare. Si capisce che si hanno anche dei pregi, inspiegabilmente. E che la femminilità c'è, negli occhi, nelle labbra di una donna.
Non sono mai stata una principessa. Perché immaginavo che il principe baciasse sempre Cenerentola e io mi sentivo il Brutto Anatroccolo.
Ho desiderato la favola. Ho costruito dentro di me un sogno. In cui ero la principessa con l'abito lungo e lo strascico. E ad aspettarmi al grande ballo c'era un principe con un mazzo di fiori rossi per me.
Forse, anche io posso essere bella. Forse.
Rebecca è oggettivamente brutta. E' nata brutta. Non è amata perché è brutta. Soprattutto da sua madre che l'ha tenuta in grembo nove mesi desiderando una figlia. E' nato un mostro per lei, da tenere sempre a distanza.
Rebecca è cosciente di essere brutta. Lo è basta. Ma cerca amore come tutti. Come tutti i bambini vorrebbe avere carezze dalla madre, che la respinge invece di avvicinarla. Perché Rebecca è una macchia, una colpa. E vive la sua vita in punta di piedi.
Finalista al Premio Strega 2011.
Buona lettura lettori,
Giulia
Mariapia Veladiano,
La vita accanto,
Torino,
Einaudi,
2011
Succede una volta nella vita di prendere un vestito così, allora strascico sia. Come una nuvola, come una cascata di petali.
Sono una che è sempre rimasta in disparte. Non ho mai avuto una bellezza scintillante.
Mi sono sempre sentita brutta. Almeno per tutta la mia adolescenza. Ero letteralmente tempesta di inestetismi adolescenziali: tutta ciccia e brufoli. Ho tentato tutti i possibili rimedi, senza successo. Arrivando a volte anche a peggiorare la situazione (ragazze attenzione ai peeling all'acido glicolico, vi potrebbe trasformare in un mostro!). Mangiavo aggiungendo sempre qualcosa ad ogni pietanza (ho provato anche le bistecche farcite da un triplo strato di sottilette). E i risultati si sono visti. Eccome.
Arricchivo il mio mondo interiore. Convinta che quello che i ragazzi vogliono è una ragazza intelligente. Ho letto affondando il mio naso tra i libri. Tutte le bibliotecarie, le libraie della mia città mi riconoscevano: ecco la Giulia, come legge signora, dovrebbe essere contenta! Dicevano a mia madre. Vivevo le mie storie d'amore sui libri. Amori sempre complicati, travagliati. Che poi interpretavo e vivevo nella mia testa.
Poi si esce dalla "teen generation" ed è una liberazione. Si capisce che lo specchio può essere messo in camera e ci si può guardare senza trattenere il respiro. Si capisce che si hanno difetti che vanno accettati, sui quali si può solo lavorare ma non cancellare. Si capisce che si hanno anche dei pregi, inspiegabilmente. E che la femminilità c'è, negli occhi, nelle labbra di una donna.
Non sono mai stata una principessa. Perché immaginavo che il principe baciasse sempre Cenerentola e io mi sentivo il Brutto Anatroccolo.
Ho desiderato la favola. Ho costruito dentro di me un sogno. In cui ero la principessa con l'abito lungo e lo strascico. E ad aspettarmi al grande ballo c'era un principe con un mazzo di fiori rossi per me.
Forse, anche io posso essere bella. Forse.
Rebecca è oggettivamente brutta. E' nata brutta. Non è amata perché è brutta. Soprattutto da sua madre che l'ha tenuta in grembo nove mesi desiderando una figlia. E' nato un mostro per lei, da tenere sempre a distanza.
Rebecca è cosciente di essere brutta. Lo è basta. Ma cerca amore come tutti. Come tutti i bambini vorrebbe avere carezze dalla madre, che la respinge invece di avvicinarla. Perché Rebecca è una macchia, una colpa. E vive la sua vita in punta di piedi.
Finalista al Premio Strega 2011.
Buona lettura lettori,
Giulia
Mariapia Veladiano,
La vita accanto,
Torino,
Einaudi,
2011
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