martedì 31 gennaio 2012

A casa

La mia famiglia è ingombrante, rumorosa e chiassosa. 
Parla al telefono, spesso. Parla a tavola a voce alta. Non da scampo. Mai. 
Ma è la cosa più preziosa che ho. 

Non sempre ho desiderato farne parte. A volte, durante i pranzi della domenica, mi sentivo come in gabbia. Perché si parlava di noi, della settimana. Del capo che faceva i suoi interessi, della maestra che non capiva le esigenze. Perché si litigava e a volte la tensione si tagliava con il coltello. Perché si rideva in modo sguaiato di un errore. 
Una famiglia numerosa la mia. Sempre in dieci attorno a un tavolo. Sempre in abbondanza. Pentole di spaghetti alla carbonara, e arrosti con le patate. Sempre in ritardo, a mangiare alle due. 
Mancanza di privacy assoluta. Veniva compiuta un'attenta indagine su quello che era il ragazzo che ti piaceva, sulla amica del momento, sul sabato sera. 
E non sempre si aveva voglia di rispondere perché magari erano cose personali. Non era ammesso il segreto tra di noi.  
Una famiglia di donne la mia. Una nonna, due figlie, quattro nipoti femmine. I problemi erano sempre gli stessi. Problemi da donne. Pettegolezzi, ripicche, litigi, amore.  
Una famiglia che si protegge la mia. Che lotta contro tutti per mantenere la sopravvivenza. Non deve essere attaccata. Altrimenti si prevedono pene severe.

Invidiavo le mie amiche, le loro silenziose cene. I loro ritrovi con pochi membri della famiglia. Mantenevano i loro segreti, loro. La loro mamma (nonna, zia, sorella, cugine) non sapeva che la sera prima avevi baciato il ragazzo dei tuoi sogni. Non sapeva quale era il tuo fidanzato. Non sapeva che avevi preso un brutto voto a scuola. 

Io sì, sempre al centro del ciclone. 
L'ho odiata, come ora la amo. 
Si sente un profumo solo nostro in casa della nonna. Si sente un calore meraviglioso quando si entra in casa della mamma. Si sentono voci amiche in casa della zia. Torno a casa, quando vado lì. 

Ora ho anche io ho una casa. E ho una mini famiglia. Chiassosa, rumorosa, insopportabile come quella da cui provengo. Ma è ciò che difenderei a spada tratta, in qualunque occasione. 

Penso che abbia pensato così anche il protagonista del libro di oggi. Difendere i componenti del proprio branco a costo di soffocare gli altri. L'importanza è data alla sopravvivenza della propria specie a costo di andare contro a tutti i valori morali, etici dei benpensanti. Due ragazzi hanno compiuto un atto ignobile. Cosa possono fare i genitori?

"Tutte le famiglie felici si somigliano, ciascuna famiglia infelice è infelice a modo suo" Tolstoj. 

Buona lettura lettori, 
Giulia

Herman Koch, 
La cena, 
Vicenza, 
Neri Pozza, 
2010.

lunedì 30 gennaio 2012

Aggiustare gli ingranaggi

Si crede di essere indistruttibili. Riuscire a tenere tutto sotto controllo. Presenti a sé stessi sempre.
Poi compaiono delle crepe impercettibili.
Un mal di stomaco sospetto e quel mal di testa che è sempre più forte e sembra non dar tregua. Qualche giorno sembra che la sera non arrivi mai, e i pensieri girano vorticosamente nella testa.
Si riuscirà a fare tutto quello che uno desidera fare? Gli impegni che si prendono non saranno troppi? Si deve mollare la presa?
L'ansia da prestazione. Voler dimostrare di essere perfetti. Senza sbavature. Come una opera d'arte completa. Perfetta.
Non sempre. Quasi mai si riesce.

Ho sempre avuto la convinzione di essere una macchina da guerra. In acciaio inossidabile. Mi sono sempre prefissata degli obbiettivi e li ho raggiunti. Tagliando il traguardo con noncurante modestia. Ma sì, cosa vuoi che sia laurearsi in tempo, avere una casa da mandare avanti, amare un ragazzo e vestirlo, farlo mangiare in modo sano, lavorare in mezzo alla tua passione.

Ora, accuso il colpo. Mi sono fermata. La macchina aveva bisogno di riposare per ricominciare a marciare. Mi sono ritagliata del tempo per me. Per oliare le cinghie. Per riassettare il motore.
Ed ecco il blog. Che mette ordine alla mia testa. Che mette in fila i miei pensieri.
Che mi aiuta a diventare una giovane donna.

La mente mi ha chiesto di rallentare e l'ho fatto. E sto meglio. E scrivo anche se pensavo di non saperlo più fare. Ma è una delle cose che vorrei fare nella vita. E' quello che posso fare prima di tutto per me, poi, spero, anche per quelli che leggono.

Avevo un problema d'ansia. E' difficile accettare questo dato di fatto, è più facile prendersela con un medico che te lo mette davanti agli occhi. E poi parli con un altro dottore e te lo ripete. Io sto bene, dicevo. Ma stiamo scherzando? Non sono pazza!
Poi rifletti. E ti accorgi che ci sono tante cose che non hai ammesso. Prima di tutto a te stessa. E le scrivi.
E stai finalmente bene.

Anche Alice. Non lo poteva accettare. Una diagnosi del genere butta al tappeto il più forte dei combattenti. E lotta con tutte le forze per rimanere fedele alla sua mente fino a quando la malattia è troppo invincibile. Leggere un libro del genere significa buttarsi nella mente di una donna in carriera che scopre di avere una malattia senza cura. Alzheimer.

Buona lettura lettori,
Giulia

Lisa Genova,
Perdersi,
Milano,
Piemme,
2010.

sabato 28 gennaio 2012

Perdere l'innocenza

Ho visto bambini perdere l'innocenza. Ho visto bambini senza regole. Ho visto bambini crescersi da soli, solo con la strada come sostegno. Ho visto sorrisi di bambine, che sapevano già tutto della vita. Ho visto bambini buttati in mezzo a drogati, spacciatori, ladri, cammoristi.

E' difficile guardare negli occhi una bambina e immaginare che la sua vita è già destinata. Tu sarai solo una meteora nel suo destino. Fra dieci anni sarà sposata con un uomo senza lavoro che si affida alla mafia per campare e che dovrà difendere dalla polizia. Avrà dei figli, tanti, possibilmente, che farà crescere sulla strada. Perché è così che si fanno le ossa.

E' difficile guardare negli occhi un bambino e immaginare che la sua vita è già destinata. Tu sarai solo una meteora nel suo destino. Fra dieci anni avrà fatto carriera nella Camorra, sarà un corriere, sarà un apriporte, sarà uno smistatore, sarà una guardia. O finirà drogato, a cercare la dose mendicandola.

Guardare tutto questo è insopportabile. Guardare la gabbia di una vita senza futuro, immaginare che per qualcuno la vita è solo il proprio quartiere è straziante. Un quartiere che prende la vita, che trasforma bambine di dodici anni in troiette spudorate, che fa diventare bambini di nove anni in affannati di sesso.
A questi bambini non serve la playstation per vedere come si uccide, per vedere un morto agonizzante. Li vedono di persona ogni giorno.

Sono i bambini di Scampia ad aver perso l'innocenza. Sono i bambini che hanno visto un ragazzo morire d'overdose. E' uno di quei bambini che ha visto il padre esplodere in mille pezzi dentro la sua macchina. Sono questi bambini che hanno visto drogati in crisi d'astinenza ciondolare come uomini senza anima. E' una di quelle bambine che racconta, con tono di vanto, che sua madre fa la zoccola, e si può permettere il videofonino. E' uno di loro che ci spiega che quella macchia sul muro è il sangue di suo zio che è schizzato. Sono quei bambini che per arrivare a casa loro devono chiedere il permesso a un uomo con una pistola.

E poi ... li vedi al mare e capisci che sono bambini. Perché fanno le gare a chi arriva prima dall'altra parte del golfo. Perché vorrebbero tanto fare un castello di sabbia ma non hanno il secchiello. Perché dopo solo una settimana hanno imparato a sorriderti e a non guardarti con diffidenza. E li prendi in braccio e baci i loro capelli. E si sorprendono che qualcuno abbia riguardo per loro, abbia rispetto di loro e della loro età.

Sono passati quasi sei anni, ma il loro ricordo l'ho nascosto nella parte migliore di me. Quella bambina con gli occhi verdi azzurri (due occhi così, giuro, non li ho mai più visti!) e quel bambino che non accettava le regole e che adesso fa l'attore.

Molti sono i libri che trattano dell'argomento Camorra-Scampia. Uno ad esempio può essere Pronzato Alessandro e Cerullo Davide, Ali Bruciate. I ragazzi di Scampia, Paoline edizioni, 2009.

Ma il libro di oggi tratta dell'infanzia. Parla dell'infanzia traumatizzata che lascia un segno indelebile nel cuore di una bambina che diventa una donna ferita. Lena è una donna adulta, sposata con una figlia. E' una donna silenziosa, che di notte vaga per la città. E' una donna senza affetto verso sé e verso gli altri. E' stata una bambina a cui hanno fatto del male. Una bambina che ha perso l'innocenza.

 Buona lettura lettori,
Giulia.


Barbara Garlaschelli,
Non ti voglio vicino,
Milano,
Frassinelli,
2010

venerdì 27 gennaio 2012

E' un giorno che merita silenzio

Silenzio e riflessione. Si deve continuare a guardare l'orrore in faccia ma non abituarcisi.
Non diventiamo insensibili al male.
Non c'è mai limite al baratro. Si deve rimanere impressionati, scottati da questi eventi. Si deve piangere davanti alla disperazione. Si deve essere in grado di arrabbiarsi davanti a certe decisioni incomprensibili.

Quest'anno la Giornata della Memoria è improntata a combattere il Negazionismo. Fino a che punto si può tollerare la presenza di questo pensiero? Si può permettere che queste idee circolino? No, non si può cancellare la memoria di quel dolore.  

Oggi offro un doppio consiglio. Da leggere e da guardare.

La baracca dei tristi piaceri. Perché si conosce tutto delle leggi razziali, dei rastrellamenti, delle deportazioni, dei viaggi sui vagoni merci, sulla selezioni all'ingresso, sulla fame, sui lavori forzati, sulla mancanza di umanità.
Non c'è limite al baratro. Perché in questa storia la protagonista, Sveva, è costretta a prostituirsi, a offrire il proprio corpo agli abusi, alla violenza. Covando dentro una vergogna che rimarrà sempre indelebile.

Vento di primavera. Il rastrellamento degli ebrei francesi a Parigi. La detenzione nel Velodromo d'Inverno, in condizioni igieniche e sanitarie tragiche. Il trasferimento in un campo di smistamento per i lager tedeschi. Attraverso gli occhi di un'infermiera e di un bambino.

Buona lettura lettori,
Giulia.



Helga Schneider,
La baracca dei tristi piaceri,
Milano,
Salani,
2009.






Rose Bosch,
Vento di Primavera,
Fra/Ger/Ung,
2010.

giovedì 26 gennaio 2012

Di mamma ce n'è una sola

... e oserei dire per fortuna!
E' difficile essere mamma come è difficile essere figlia.
La serie "Una mamma per amica" ha ingannato migliaia di adolescenti, me compresa. L'idea che con la propria madre si possa dire tutto, mangiando cibo spazzatura sul divano e guardando film strappa-lacrime è falsa. Ragazze, non è così. Per prima cosa se si mangia tutte le sere, cordon-bleu, cotolette, patatine si rischia di non passare per le porte prima dei vent'anni. Poi a vostra madre non piace sapere quanti ragazzi avete baciato, con quanti avete fatto l'amore e come è stato. Per quello c'è la migliore amica, se l'avete (altrimenti rimane il diario segreto, quello che dovete nascondere in qualche angolo segreto della scrivania!).

La mia mamma c'è sempre stata. In modo silenzioso, accanto a me. Ha sempre capito tutto della mia vita, anche senza confessioni commoventi. Mi ha consigliato, mi ha guidato verso strade che io stessa non avrei mai preso. Mi ha difeso come una leonessa quando tutti mi prendevano in giro, mi ha sgridato quando dicevo solo bugie, mi ha consolato quando sembrava che l'amore della mia vita non mi volesse più, mi ha preparato succulenti piatti quando avevo deciso di non mangiare più, mi ha cucinato verdure al vapore quando ero diventata tutta ciccia e brufoli.

Piena di buone intenzioni e piena di difetti. Quando non parla per settimane perché è arrabbiata, quando vorrebbe che fossi sempre perfetta e ordinata (che poi, io, nel mio disordine e nella mia sbadataggine io ci sto bene!), quando parla al telefono e ascolta qualsiasi altra cosa al di là della conversazione. Quando fa fatica a dire quello che pensa e quello che prova.

Ma è la mia mamma, unica come nessuna, uguale a mille altre.
Non sempre, però.

Il libro di oggi tratta di maternità, di relazioni famigliari. Di una famiglia: Padre, Madre e Figlia. Una famiglia all'apparenza normale come normali sembrano i rapporti tra la madre e la figlia. Non lo sono. Anzi, tutto si costruisce su un delirio di perversione, di sottomissioni, di rivincite che sanno di vendette. La Madre vuole essere bella e desiderata, osannata dentro e fuori dalla sua casa. La Figlia che vive di dolore, che cresce nella disperazione maturando un rancore profondo che esplode in tutta la sua violenza. Dentro una casa che è uno zoo, dove non si capisce bene chi sia il custode.

E' un incubo, che prosegue anche dopo averlo letto. Forte, deciso, stilisticamente perfetto. E' una lama di coltello che piace o non piace, che si ama o si odia.

Buona lettura lettori,
Giulia

Isabella Santacroce,
Zoo,
Roma,
Fazi,
2006.

martedì 24 gennaio 2012

Se ti chiudessero dentro una stanza

e cominciassero a farti domande private riguardo alla tua vita. Domande personali poste da una voce robotica e che scavano sempre di più nel tuo intimo. "Cosa ci faceva lì signora Pincopallino alle due e mezza, insieme a quell'uomo che non ci risulta essere suo marito?". Domande a cui nessuno vuole rispondere, domande a cui tutti rifiutano di mettere una conclusione. Domande educate, mirate ed estenuanti senza risposte.
Chi le fa queste domande? Le fanno gli Intervistatori, rapiscono la gente per qualche ora, non per soldi, non per atti terroristici ma per scavare nella meschinità umana. Per capire come l'uomo comune arrivi a compiere determinati gesti, per capire i bassi istinti che accomunano il genere umano.

E se mi rapissero? E se facessero su di me questo processo? Quante cose compiute, meschine, grette, di bassezza d'animo verrebbero alla luce?

Apparentemente siamo tutti gente meravigliosa, abitiamo in contesti signorili, alla mattina rifacciamo il letto, puliamo la casa. Poi lavoro, strette di mano, sorrisi con i colleghi, pranzo. Con la famiglia, in ufficio e anche lì chiacchiere, sorrisi, caffè. Pomeriggio, lavoro, guardare l'orologio, è già ora di andare. Macchina, pullman, casa, chiave nella toppa. Cena, telegiornale, film. E si ripassa dal via.

Fatica, impegno, successo.

Non sempre siamo puri d'animo, non sempre il sorriso stampato sulla bocca coincide con un medesimo moto del cuore. Non sempre siamo felici di incontrare il vicino di casa e parlare con lui delle infiltrazioni d'acqua. Non sempre vogliamo essere gentili con l'impiegato della Posta che favorisce i suoi amici allo sportello. Non sempre desideriamo essere rimproverati dal capo. Non sempre si può mascherare l'ignoranza altrui come una propria mancanza.

E il non detto e il non fatto covano in noi. La bella faccia regge, non demorde.
Fino a quando non si sentono scricchiolare le fondamenta, fino al punto di non ritorno. Al punto in cui la faccia non regge più. Al punto in cui il Super Ego non riesce più a trattenere l'Es (Freud docet). Le rimozioni appaiono e si sviluppano in modo inaspettato. E ci si sente individui estranei a quello che ci si aspetta. A quello che la società vorrebbe che fossimo.

E poi arrivano gli Intervistatori, come il Grillo Parlante di Pinocchio. Che mostrano quello che siamo, veramente.

E voi come siete, veramente?

Buona lettura lettori,
Giulia

Fabio Viola,
Gli intervistatori,
Milano,
Ponte alle Grazie,
2010.

lunedì 23 gennaio 2012

Vuoi essere la mia migliore amica?

Ho vissuto buona parte della mia infanzia con questa domanda sulla bocca. Non sono stata una bambina popolare nella mia scuola elementare. Non ho mai capito bene il perché. Sarà stato perché avevo i capelli corti, mentre le mie compagne, biondi, biondissimi capelli lunghi. Sarà stato perché loro avevano l'apparecchio mobile e se lo toglievano spaventando i maschi, mentre io lo avevo fisso e non facevo paura a nessuno. Sarà stato perché le altre avevano lo zaino dell'invicta con tutti i personaggi dei cartoni animati, mentre io avevo la cartella, una meravigliosa cartella fuori moda. 
Però ero anche una bambina dolce, una bambina gentile, che corteggiava segretamente la sua migliore amica. Da noi funzionava così, la più biondissima delle bambine, quella che tutti volevano come amiciSSIMA, valutava e selezionava le pretendenti. Dopo un testa a testa, veniva nominata la migliore amica. 
Io avevo fatto parte sempre delle pretendenti, mai sono stata migliore amica. Tranne una volta a cui arrivai a un soffio dalla nomina, per poi ricevere il bigliettino. No, non voglio diventare la tua "best friend". 

Seguivano i pianti, e una disperazione che rompeva il cuore. La mia mamma cercava di ripetermi che non era importante, che non sarebbe stato un problema trovare una amica. 

Ed effettivamente ora, mi sembra di poter ammettere che non è poi difficile trovare qualcuno con cui parlare, con cui sforgarmi, con cui passare del meraviglioso tempo da perdere. 
Ci sono le amiche da sempre: quelle che hanno condiviso con te tutta la vita, che ti hanno visto diventare quella che sei diventata. Facendoti piangere, facendoti ridere, facendoti inca**are come non mai ma sempre volendoti bene. 
Ci sono le amiche che hai incontrato nella vita : quelle che ti conoscono ora, per come sei ora, che ti devono capire di più, che non sanno tutto di te ma che cercano di saperlo. Che forse riescono a vedere di più in te, anche le cose che dai per scontate.
Ci sono le amiche improvvise, che ti cadono tra le mani, e ti rendi conto che sono un dono. Sono quelle che condividono con te un lavoro, la piscina, un corso. Convivi per forza con loro, condividi quasi la maggior parte della giornata con loro. E ti rendi conto che vai al lavoro per incontrare loro, per aggiornarle di qualcosa, per raccontare il motivo per cui sei tanto triste, per cui sei tanto felice. E lavorare poi, è una conseguenza. 
Grazie amiche di sopportare tutto, di ascoltarmi anche quando per dire una cosa ci metto un'ora, anche quando non rispondo al telefono o ai messaggi, anche quando sono più logorroica, lunatica, antipatica del solito. Siete la mia forza. 

E per concludere tutto questo, come non consigliare un meraviglioso libro sull'amicizia? Sull'amicizia tra maschio e femmina, l'amicizia tra esclusi, emarginati dagli altri che ritrovano nella coppia. Vaclav e Lena sono entrambi figli di immigrati russi, vivono in una condizione di separazione rispetto agli altri bambini,
frequentano classi diverse, corsi diversi. Inevitabile è la loro frequentazione che si tinge di spettacoli di magia
e di puzza di cavolo. Entrambi sanno che possono contare uno sull'altra, segretamente si innamorano. 
Le loro strade, però, si dividono. Non si dimenticano l'uno dell'altra. Anni di silenzio poi al 17° Compleanno...  

Buona lettura lettori, 
Giulia

Haley Tanner,
Cose da salvare in caso di incendio, 
Milano, 
Longanesi, 
2011.



sabato 21 gennaio 2012

Carne dalla mia carne, osso dalle mie ossa

Ovvero il matrimonio e affini.
Da adolescente non sono mai stata la ragazza che si immagina il giorno del matrimonio. Con abito bianco, velo e annessi e connessi. Ho sempre immaginato, però, il giorno in cui avrei tenuto fra le braccia il mio bambino. In me ha sempre prevalso la tenerezza e l'affetto piuttosto che il romanticismo. Non sopporto smancerie in pubblico (per non parlare di quelle coppiette che si baciano in modo prolungato sui treni!), non mi capacito di come facciano alcuni a tenersi la mano per tutto un film al cinema, non riesco a sentire quelle coppie che sono tutte un "tata, amore, tesoro, pasticcino".
Però abbiamo deciso di sposarci. E abbiamo deciso di farlo in chiesa. In contro tendenza a tutti quelli che sono per i rapporti liberi e aperti. Lo facciamo perché è come ringraziare, come ammettere che quello che viviamo è un dono. È una fortuna avere incontrato una persona con cui si sta bene. Ci sono relazioni che appassionano il cuore, ci sono relazioni che appagano la mente, ci sono relazioni che fanno stare bene. Che fanno ridere, che fanno piangere, che fanno arrabbiare, che rendono la quotidianità un momento piacevole. E trovare una persona del genere è qualcosa che va festeggiato. E la festa ci sarà, a luglio.

Convinta della meravigia del vissero finché morte non li separi, frequenti sono le frecciatine di chi ci guarda da fuori: "Tanto tutti si separano" "La crisi del Settimo anno!" "Il divorzio ormai è di moda". La paura che la nostra non sia la favola del Felici e Contenti c'è. E questa paura si alimenta quando si leggono libri come questo.

Una coppia, otto anni di matrimonio, due figli. La favola della Felicità. Quando Agatha scopre una vita parallela del marito e comincia una faida tra lei e quello che doveva amarla e rispettarla. Una guerra fatta di battaglie legali, di sotterfugi, di minaccie. E soprattutto di dolore lucido. Consapevole di aver sbagliato tutto, di aver fatto valutazioni sbagliate e quello che era la tua dolce metà si rivela la metà di uno str***o, anzi uno str***o intero!

E come dice l'autrice, che ha vissuto l'esperienza in primo piano: "Per fare le cose per bene, bisognerebbe cominciare con il divorzio. E poi ci si sposa". Noi ci manteniamo ancora nella tradizione, ci sposiamo poi vedremo ...

Buona lettura lettori,
Giulia


Eliette Abecassis,
Un affaire coniugale,
Milano,
Tropea Edizioni,
2011.

venerdì 20 gennaio 2012

Di lievitazioni e dell'arte dell'aspettare

Non sono portata per l'attesa, lo ammetto. Desidero tutto subito, rimpiangendo subito dopo di non aver aspettato. 
Come i regali di Natale, come si fa a non aprirli prima del tempo corretto? Come una chiamata attesa, come si fa a non controllare mille volte il telefono? Come una data importante, come si fa a non immaginarsi già in quella giornata?
Insomma non sono una portata per le lunghe attese. Sono una che prende le decisioni immediate, o bianco o nero, subito. Non ho mai creduto nella famosa Pausa di Riflessione ciò che vogliamo lo sappiamo già, in fondo al cuore. Tutto è fra le nostre dita, già pronto. Salvo poi pentirsi immediatamente di quello che è stato fatto. Ma fino ad ora la fortuna mi ha strizzato l'occhio, e sono caduta quasi sempre in piedi!


Quindi perché un post sull'attesa? A causa di una pagnotta che sta lievitando nel forno. E scrivere è un modo come un'altro per non continuare a sbirciare se gli agenti lievitanti stanno facendo il loro dovere. 
Che io sia un'ottima cuoca è cosa risaputa. Ma con il pane non mi sono ancora cimentata. (Meglio sorvolare su mio tentativo di pane indiano che Lorenzo ha finto, in modo poco verosimile, di apprezzare!) 
Ingredienti disposti sul tavolo, impasto vigorosamente impastato. E ora ai posteri l'ardua sentenza.


Siccome però siamo in un blog di libri, fondamentale è il consiglio del libro del giorno. Ed è un libro sull'attesa...attesa dell'amore, attesa di un'opera da compiere, attesa di una vendetta. Loro aspettano qualcosa che verrà su un molo, in una locanda. 
E c'è un uomo che aspetta di trovare il modo per dipingere il mare con l'acqua di mare, e c'è una ragazza che aspetta di non avere più paura del mondo, e c'è un uomo che tutte le sere scrive una lettera alla donna della sua vita e aspetta di incontrarla. 


"Ha 38 anni, Bartleboom. Lui pensa che da qualche parte, nel mondo, incontrerà un giorno una donna che, da sempre, è la sua donna. Ogni tanto si rammarica che il destino si ostini a farlo attendere con tanta indelicata tenacia, ma col tempo ha imparato a considerare la cosa con grande serenità. Quasi ogni giorno, ormai da anni, prende la penna in mano e le scrive. Non ha nomi e non ha indirizzi da mettere sulle buste: ma ha una vita da raccontare. E a chi, se non a lei? Lui pensa che quando si incontreranno sarà bello posarle sul grembo una scatola di mogano piena di lettere e dirle
- Ti aspettavo.
Lei aprirà la scatola e lentamente, quando vorrà, leggerà le lettere una ad una e risalendo un chilometrico filo di inchiostro blu si prenderà gli anni -i giorni, gli istanti - che quell’uomo prima ancora di conoscerla, già le aveva regalato. O forse più semplicemente, capovolgerà la scatola e attonita davanti a quella buffa nevicata di lettere sorriderà dicendo a quell’uomo
- Tu sei matto.
E per sempre lo amerà."


E tutte le volte che rileggo questa parte si muove una piccola esplosione dentro di me (Olive Kitteridge remind!).

Buona lettura lettori,
Giulia

Alessandro Baricco,
Oceano Mare,
Milano,
Feltrinelli,
2007

giovedì 19 gennaio 2012

Vorrei essere Olive Kitteridge

Si, vorrei essere lei. Una donna forte, con la risposta pronta. Sarebbe facile essere conformisti in un paese come quello in cui abita, Crosby. Sarebbe facile andare a messa la domenica mattina come Daisy, evitare di mostrare l'apparenza come i signori Lydia, essere conciliante, serena, gentile come una donna matura in pensione.
Eppure a lei non importa di dire quello che pensa, a costo di essere sgarbata, poco educata, poco politically correct. La vita non è stata semplice per lei, ma nemmeno troppo cattiva: un buon marito che comunque l'ha sempre amata, un figlio che l'ha sempre rispettata, un buon lavoro di insegnante. Una buona vita. E la voglia di  piantare piante nel vialetto e voler avere sempre l'ultima parola.

Sono andata a vivere in un paese. Oppure ...sono andata a vivere in campagna ah, ah, ah (Toto Cotugno memories)... Un paese che non sento troppo mio ma che sto imparando a conoscere. Tanti sono gli aspetti meravigliosi, la campana della domenica mattina, il bar della piazza che sforna cornetti sopraffini, il mercato del venerdì, il salutare l'amica del vicino di casa, il conoscere un po' tutti.
Ma il più delle volte vorrei diventare come Olive, e non salutare se non mi va, e dire merda quando serve, e fare un po' la matta, e togliermi dalla faccia questo sorriso ebete.

E leggendo ho capito grazie a Olive (o a Elizabeth Strout) che "la vita si basa su grosse esplosioni e piccole esplosioni. Le grosse esplosioni sono il matrimonio, i figli, gli amici intimi che ci tengono a galla, ma queste cose nascondono correnti invisibili e pericolose. Ecco perchè si ha bisogno anche delle piccole esplosioni: un commesso amichevole da Bradlee's, per esempio, oppure la cameriera del Dunkin'Donuts, che sa come vuoi il caffè. Sono faccende complicate, davvero."

Buona lettura lettori,
Giulia.

Elizabeth Strout,
Olive Kitteridge,
Roma,
Fazi Editore,
2009.

domenica 15 gennaio 2012

Ecco a cominciare un blog

Perché aprire un blog di libri? 


Perché la letteratura è una passione, perché leggere fa aprire la mente, fa crescere lo spirito. E perché a me piace. 
Leggo sempre, da sempre e dovunque. Leggo e desidero che anche altri lo facciano ... perché fa bene. 


Ecco, partiamo. 


Giu.